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Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp , Quodlibet, 2005
di Luca Viglialoro
Questo libro di Paolo D’Angelo svolge una tesi abbozzata in un saggio pubblicato per la rivista “Intersezioni” nel 1986 e riprende inoltre molti spunti dal lavoro condotto con Stefano Velotti e confluiti in Il non so che. Storia di un’idea estetica (Aesthetica edizioni, 1997). L’intento dell’autore sembra essere quello di tracciare un terreno ideale entro cui ripensare l’arte sin dalle sue prime manifestazioni attraverso la nozione dell’ars est celare artem: «L’arte che va nascosta è per noi innanzi tutto proprio l’arte nel senso che ormai è divenuto quello prevalente, l’arte come bella arte come grande arte»(p.14).
In che modo, propriamente, l’arte cela l’arte? Baldassarre Castiglione, ne Il libro del Cortegiano, esprime la parvenza di naturalezza delle produzioni artistiche col termine sprezzatura, della cui polisemia D’Angelo si serve per poter illustrare le proprie tesi in questo testo.
Un primo significato di sprezzatura che sembra trasparire è quello di grazia (l’ineffabile charis dei greci) che, oltre a indicare quella benevolenza o quell’ aiuto che Dio può concedere, è anche l’espressione di una fascinazione e di uno splendore attraente che promana dalla misura delle forme, dalla proporzione (la commodulatio di Vitruvio). La civiltà romana considera l’ars est celare artem come un elemento indispensabile dell’antica retorica giudiziaria. L’Institutio Oratoria di Quintiliano afferma infatti che i procedimenti che portano ad un discorso convincente -- pur richiedendo una minuziosa preparazione nell’inventio, nella dispositio, nell’elocutio, nella memoria e nell’actio --  non possono essere mostrati o tanto meno ostentati; anzi, ai fini della persuasione, è necessario far apparire  i nostri discorsi come naturali, quasi improvvisati.  L’arguzia ironica e non offensiva del linguaggio parlato -- l’urbanitas – può essere molto efficace: «Dunque nell’oratoria forense è essenziale la capacità di nascondere l’arte, di occultare le capacità retoriche facendo credere di parlare in modo del tutto semplice e non studiato» (p.27).
Per evitare di confondere la sprezzatura con la noncuranza o con la cauta audacia, dobbiamo sciogliere il paradosso che si annida in una formula come ars est celare artem, cercando di «divaricare il significato delle due occorrenze del termine ars», riconoscendo che «l’arte nascosta ha preso un peso sempre maggiore rispetto all’arte palese, o che il tasso di convenzionalità delle opere artistiche si è progressivamente abbassato» (p.43). L’arte assolve pienamente la sua funzione accordando felicemente (come vorrebbe Kant) natura e artificio, e già nel ‘600 trattatisti italiani come Lomazzo scrivevano che «non v’è cosa peggiore nell’arte, che mostrar l’arte nell’arte» (p.55). Non deve dunque stupire la cura che nel ‘700 veniva impiegata per gli english garden, che per elaborazione e invenzione formale ancora oggi destano stupore (per una trattazione più approfondita ed estesa dell’estetica paesaggistica si veda, sempre di D’Angelo, Estetica della natura, Laterza, 1999).
Nel contesto appena delineato, l’autore non manca di segnalarci alcune interessantissime analogie del ‘celare l’arte’ con la cultura orientale che, più spesso, si prestano a delle interpretazioni storico-politiche. La sprezzatura come portamento elegante e spontaneo in società per D’Angelo somiglia curiosamente al vago concetto nipponico di iki, con cui l’occidente è venuto a contatto grazie a Kuki Shuzo. Sarà Heidegger, maestro di Shuzo negli anni marburghesi, a riflettere per primo sull’apertura ontologica di questo termine.
Perciò, a livello trascendentale la spezzatura, insieme al despejo di Gracian e al je ne se quoi di Bouhours, può essere considerata come una manifestazione artistica che bilancia la doppia valenza della parola ars: “L’arte**, l’arte che va nascosta, è l’arte intesa come insieme di regole esplicitabili e trasmissibili, un ‘saper fare’ tecnico e controllabile. Ma che cos’è l’arte*, l’arte che nasconde? L’arte* è l’arte come principio di creatività e di organizzazione, è il principio estetico che decide dell’applicabilità delle regole delle arti**. L’arte* è l’arte come rule changing creativity, non semplicemente rule governed creativity. A questo punto non può non saltare agli occhi una corrispondenza significativa. L’arte** è l’arte in senso antico, come techne, come sapere codificato in regole, insegnabile e di fatto insegnato come un mestiere […] Quest’arte* è retta da un principio di creatività, nel senso che crea il proprio procedimento e non si limita ad applicarlo. E’ l’arte in cui l’innovazione diventa predominante” (l’asterisco indica le differenze tra ars e artem, in ars est celare artem, p.116).

La trattazione si conclude con un saggio su Duchamp e sul carattere disartizzato dell’oggetto artistico nel Novecento figurativo e pittorico. Laddove, afferma D’Angelo, l’arte mostra che non c’è più nulla da nascondere eliminando le differenze materiali con la realtà, l’artisticità giunge all’apice del suo occultamento. E’ qui che si rende più palese e più vigoroso il gioco nella regola e della regola, la “conformità a scopi […] non intenzionale” di cui Kant parla nel paragrafo 45 della Critica del giudizio, il “modo per dire, forse più efficacemente di molti altri discorsi, come l’arte sia sempre suscettibile di interpretazione e pure ad essa si rifiuti, esplicita ed enigmatica, trasparente come un cristallo e misteriosa come un geroglifico”(p.135).


PUBBLICATO IL : 04-02-2007

 

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