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Porfirio, Sullo Stige, a cura di C. Castelletti , Bompiani, 2006
di Francesco Verde
Questa edizione di Sullo Stige è la prima traduzione in una lingua moderna dei nove frammenti che compongono l’opera di Porfirio di Tiro. Il fatto che la traduzione sia in italiano, se da una parte è esempio del rinnovarsi di una già comprovata tradizione di testi porfiriani tradotti nel nostro Paese (traduzioni quasi sempre di eccellente qualità), dall’altra non meno significativamente –se si osserva che chiunque vorrà occuparsi di quest’opera in modo specialistico, dovrà senz’altro misurarsi con la nostra lingua- è il segnale dell’importanza di questi studi nel nostro paese e nella nostra tradizione filosofica.Uno dei caratteri peculiari della filosofia di Porfirio è riassumibile senz’altro nella sua comprovata polumatheia, ossia la capacità di affrontare i più disparati argomenti con precisione e trasporto, dalla filologia omerica alla fisica, dalla filosofia alla geografia, dalla mitologia alla teologia. Il Sullo Stige rappresenta uno dei tanti scritti porfiriani dedicati all’esegesi omerica (almeno apparentemente), come, d’altronde, il più famoso Antro delle ninfe, l’unica opera esegetica su Omero giuntaci del tutto integralmente (accessibile al lettore italiano nella traduzione di L. Simonini del 1986, appena ristampata da Adelphi) che si occupa di allegorizzare l’immagine di una grotta ad Itaca, descritta, appunto, da Omero. L’interesse di Porfirio per l’esegesi omerica è facilmente spiegabile per due motivi essenziali: in primo luogo, Porfirio è stato allievo non solo di Plotino ma anche del celebre retore Cassio Longino e pertanto risulta plausibile che abbia più volte ascoltato le lezioni di filologia omerica; in secondo luogo, in età tardo-antica Omero era considerato non solo (e tanto) come autore letterario, ma come sapiente e filosofo, insomma, come protos heuretes della sapienza/saggezza più arcaica (e quindi più autentica), di conseguenza interpretare Omero non indicava solamente la possibilità di ricostruire l’esatto significato filologico del testo ma soprattutto avviare un tentativo di comprensione della “filosofia omerica”. Non è evidentemente un caso che Porfirio sia stato l’autore di scritti come le Questioni omeriche e Sulla filosofia di Omero. Come è noto, Porfirio si distingue spesso per l’utilizzo di un’esegesi allegorica. Tuttavia, come ricorda Castelletti nell’Introduzione, esistono due tipologie esegetiche, la prima di carattere “difensivo” (come il De Omero di Eraclito; Pseudo-Plutarco; Cratete di Mallo), mirante a riabilitare la sapienza arcaica, la seconda “positiva” (come il Compendio di teologia greca di Anneo Cornuto), una modalità, questa, finalizzata a utilizzare gli antichi poeti per avvalorare le proprie dottrine. Pertanto, interpretare Omero, o in senso difensivo o in quello positivo, riflette una chiara strategia, quella di tutelare i valori della Grecia arcaica (e pagana) contro i culti rivali, quali il giudaismo e il cristianesimo. Sullo Stige, il cui testo integrale è irrimediabilmente perduto, si presenta in nove frammenti conservati dall’Antologia dell’erudito Giovanni Stobeo (V sec. d.C.); il merito del curatore Castelletti sta specialmente nell’averne approntato la prima traduzione in lingua moderna, oltre ad aver loro attribuito un ordine di lettura, affiancato da un puntuale ed esaustivo commentario al testo. Inoltre Castelletti si distingue anche per aver congetturato una tanto possibile quanto plausibile lectio alla linea 4 del frammento 3 (sun Achillei invece di sunekalei o sunelalei) che rende più agevole la comprensione dell’intero frammento.Il volume si chiude con una serie di tavole che testimoniano l’importante attività iconografica e archeologica condotta da Castelletti, del tutto indispensabile per la corretta comprensione del testo porfiriano. Come recita il titolo, questi frammenti si occupano dell’esegesi omerica (Il.,II, 75; XIV, 271; XV, 36-38) circa l’acqua del fiume Stige. In Omero quest’acqua è il simbolo del più tremendo giuramento degli dei, mentre in Esiodo (Teog., 361; 383-403; 775-806) Stige è la figlia di Oceano e Teti, la più antica delle Oceanine. Nel fr. 1 Porfirio polemizza contro la metodologia ermeneutica del testo omerico seguita da alcuni interpreti come Cronio, filosofo pitagorico-platonico, spesso associato al più famoso Numenio. I frr. 2 e 3 si dedicano, nello specifico, alla ricostruzione della geografia infernale descritta da Omero; il poeta distingue tre luoghi distinti in cui stanno le anime, la terra, i campi Elisi (dove le anime conservano il corpo) e l’Ade. L’Ade, a sua volta, è attraversato dal fiume Acheronte: le anime che risiedono all’esterno del fiume subiscono delle pene di carattere “immaginativo”, ossia, in quanto dotate di logismos, vedono delle rappresentazioni (phantasiai) di pene tremende. È lecito, quindi, asserire che la loro pena sia di carattere essenzialmente “immaginativo”. Al di là dell’Acheronte, invece, le anime perdono sia il logismos che la memoria così da non subire più alcuna pena immaginativa. Sulla base di tale definizione topografica, Porfirio attribuisce a Omero una chiara dottrina ascensionale dell’anima che procede dal livello sensibile (terra e campi Elisi) a quello genuinamente intellettivo (la parte interna dell’Ade, circondata dall’Acheronte). Il fr. 4 è, poi, contiene un estratto dell’opera Sugli dei di Apollodoro di Atene in cui si discute dell’etimologia dei fiumi dell’Ade, oltre agli esseri che lo abitano; il fr. 5 è molto importante dal punto di vista topografico in quanto Porfirio localizza lo Stige sulla terra, in Arcadia, in prossimità di Nonacri (l’odierna cascata di Mavronero, di cui Castelletti riporta affascinanti fotografie che testimoniano, con grande fascino, la fedeltà della descrizione porfiriana della cascata, a distanza di quasi duemila anni). Il fr. 6 tratta di alcuni asini che popolano la Scizia, che risultano assai particolari in quanto sono forniti di corna; il materiale di tali corna sarebbe l’unico a poter contenere l’acqua di Stige che, normalmente, distrugge ogni contenitore in cui viene versata.Senza dubbio il settimo frammento riportato da Stobeo è quello più complesso ma allo stesso tempo più dotato di fascino, soprattutto perché testimonia il carattere sincretistico delle credenze tardo-antiche, che vanno ben oltre i confini della Grecia classica, confrontandosi con la cultura orientale, in particolare quella indiana. Porfirio riporta due brani del filosofo siriano Bardesane di Edessa (la cui dottrina miscelava cristianesimo e astrologia babilonese) sui culti dell’India, in cui vengono descritte due prove di carattere ordalico. Come è noto, l’ordalia (dall’antico germanico) significa au pied de la lettre “giudizio di Dio”: “ordaliche” si dicono le prove che un individuo deve superare per provare la sua innocenza al cospetto degli dei. Tali prove erano collegate soprattutto all’acqua; Bardesane scrive che, in India, l’individuo considerato colpevole doveva attraversare una palude indiana molto pericolosa. Se la palude veniva attraversata senza correre alcun rischio, l’individuo in questione era ritenuto innocente, mentre se affogava i bramani lo consideravano colpevole. Nella seconda testimonianza Bardesane racconta un’ulteriore prova ordalica che si svolgeva all’interno di una grotta dove c’era una grande e singolare statua dall’aspetto simmetricamente androgino: da un lato era maschile, dall’altro femminile. Porfirio, riferendosi sostanzialmente al Timeo platonico - e dunque senza alcun tipo di rinvio cristiano-gnostico - dice che «questa statua Dio l’abbia data al figlio quando creava [ektizen] il mondo, affinché avesse un modello visibile [theaton paradeigma]»; il grande merito di Castelletti è quello di identificare tale statua dal carattere androgino con l’iconografia di Ardhanārīśvana, manifestazione di Śiva unito alla sua Śakti Pārvatī. Dietro la statua, simbolo cosmico, si trova una porta all’interno della quale sgorga acqua pura: solo l’innocente è in grado di attraversare la porta, senza rischiare alcunché. Come si vede, le prove ordaliche descritte da Bardesane/Porfirio sono legate all’acqua, d’altronde, in Omero, lo Stige rappresentava l’acqua sulla quale gli dei giuravano (lo testimonia anche Aristotele in metaph., A3, 983 b 30-33). La prova ordalica ebbe un’estesa fortuna anche nell’Alto Medioevo. Basti pensare che nella sua Historia Francorum (I, 35) Gregorio di Tours ne descrive una che fu miracolosamente superata da un tale Quirino, vescovo di Sissek. Gli ultimi due frammenti contengono, infine, solo delle note esegetiche su Omero.Senz’altro l’ordine dei frammenti che Castelletti fornisce appare del tutto plausibile e convincente; d’altro canto, dal loro contenuto, risulta verosimile credere non solo che il tema dello Stige fosse una questione di grande importanza nel tardo-antico ma soprattutto che il Sullo Stige fosse un’opera non tanto di esegesi omerica (come l’Antro delle Ninfe) ma dedicata allo Stige tout court. Lo Stige, inoltre, è stato pure oggetto di numerose interpretazioni sin dall’antichità che testimoniano l’interesse per l’argomento; come si è precedentemente detto, Omero conosceva l’acqua di Stige in relazione al giuramento degli dei, Esiodo descriveva Stige come la più antica delle Oceanine, dunque già nei primi autori che la tradizione letteraria arcaica riconosce sussiste una differenza interpretativa di non poco memento.Successivamente, a partire da alcuni versi di Virgilio (Georg., IV, 480 e Aen., VI, 439) per cui lo Stige è il fiume che cinge per ben nove volte gli inferi, scaturisce tutta una tradizione esegetica che vede nei nove meandri la rappresentazione delle nove sfere celesti. Tale tradizione rinvia, in buona sostanza, al commentatore virgiliano Servio (in Aen., VI, 127 e 439) e a Favonio Eulogio (in Somn. Scip., XIX, 4-7), famoso per aver ascoltato le lezioni di Agostino retore a Cartagine. Ancor più interessante dal punto di vista filosofico è un’ulteriore tradizione esegetica di matrice sostanzialmente (neo)pitagorica, che si innesta sull’idea delle nove sfere celesti. Secondo il (neo)pitagorismo, il corpo è tomba dell’anima, pertanto la terra stessa viene identificata con gli inferi, come riferisce lo stesso Servio, Favonio Eulogio, oltre a Macrobio (in Somn. Scip., I, 10, 9-11) e Mario Vittorino. È verosimile che alla base di tali esegesi neoplatoniche vi sia un passo dello stesso Porfirio (ad Gaurum, II, 2) che testimonia come già Numenio allegorizzasse lo Stige di Esiodo, descrivendolo come sperma, ossia come seme della vita terrestre e dunque della morte. Plutarco (de genio, 591a), poi, mette in luce come lo Stige rappresenti la strada verso l’Ade, la strada che le anime (impure) devono percorrere per reincarnarsi.In conclusione, come le ricerche di Castelletti riferiscono chiaramente, il tema dello Stige ha subito un complesso sviluppo esegetico, dall’età arcaica (Omero, Esiodo) fino al Tardo-antico e oltre; da simbolo del tremendo giuramento, condicio sine qua non di ogni società organizzata, a flusso che genera la morte e la vita nell’ottica genuinamente (neo)pitagorica: lo Stige diviene quindi simbolo cosmico ed elemento primordiale.


PUBBLICATO IL : 08-12-2006

 

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