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Stefania Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica , il galluzzo, 2004
di Paolo Falzone

Il carteggio tra Bruno Nardi ed Emilio Chiocchetti, curato da Stefania Pietroforte per le Edizioni del Galluzzo («Carte e Carteggi» della Fondazione Ezio Franceschini, vol. 8, Firenze 2004), eccede, in rilevanza documentaria, le vicende biografiche e intellettuali dei suoi protagonisti. Cronologicamente distribuite lungo un arco che va dal 1911 al 1949 (ma la maggior parte della corrispondenza si concentra negli anni tra l’’11 e il ’14), le settantasei lettere che Nardi e Chicocchetti si scambiarono testimoniano di quel momento, decisivo per la cultura cattolica italiana del primo Novecento, in cui parte della neoscolastica cercò di rinnovare se stessa mediante il confronto con il modernismo da un lato, con l’idealismo dall’altro.
Tale fu anche il progetto che i due studiosi condivisero, dando vita ad un profondo sodalizio umano e intellettuale, destinato ad interrompersi bruscamente alla fine del 1913, una volta che a Nardi, guastatisi ormai i suoi rapporti col p. Gemelli e nel pieno di una crisi esistenziale, fu chiaro che non nel senso da lui immaginato l’amico procedeva alla vagheggiata riforma della neoscolastica.
Le ragioni del sodalizio prima, della rottura poi sono indagate dalla curatrice del carteggio con notevole finezza e nel rispetto della documentazione proposta, in un’ampia introduzione premessa all’edizione delle lettere. Di questo saggio converrà mettere in luce, da subito, l’acquisizione a nostro giudizio più rilevante sul piano storiografico, ovvero che tra neoscolastica, modernismo e idealismo si realizzò, nel pensiero dei due studiosi, un complesso intreccio, al fondo del quale agiva la convinzione che per la filosofia cattolica, percorsa, nel giudizio di Nardi e Chiocchetti, da tendenze regressive (il neotomismo), fosse venuto il tempo di aprirsi al contatto con il pensiero moderno.
A conseguirne fu una riflessione, più sistematica in Chiocchetti, più rapsodica e “inquieta” in Nardi, nelle cui articolazioni interne quanto di quelle filosofie, tra loro così diverse, veniva ricevuto e assimilato intratteneva, con l’originario impianto categoriale, un rapporto che era di conformità e difformità al tempo stesso.
Esemplare, in tal senso, l’atteggiamento verso la filosofia crociana, della quale Nardi e Chiocchetti mettono in risalto e approfondiscono ora la potenza sintetica irradiata dal sistema, ora le pulsioni dualistiche implicite nel nesso intuizione-concetto: la prima per contrastare il dualismo gnoseologico posto alla base della restaurazione tomistica, le seconde per suscitare, all’interno di una filosofia che aveva espunto da sé la trascendenza, l’idea di un divario tra elemento logico e principio divino.
Quest’ultimo punto introduce ad un tema, quello dell’influsso del modernismo sul pensiero dei due studiosi, cui la Pietroforte dedica alcune pagine tra le più intense e penetranti del suo saggio. Nella coscienza della insuperabile sproporzione tra Dio e il concetto che vorrebbe adeguarlo sopravvive infatti, tanto in Nardi quanto in Chiocchetti il nucleo più profondo e drammatico della lezione modernista, in particolare del Loisy di L’Évangile et l’Église: ciò a prescindere dai giudizi, senz’altro riduttivi, che i due ebbero a formulare in proposito.
In Nardi, soprattutto, il tema dimostra una vitalità della quale i riflessi sul piano della sua storiografia devono ancora essere colti adeguatamente. Non c’è dubbio, ad esempio, che il senso della meditazione modernista sia già presente, come dimostra la Pietroforte, nella recensione, apparsa nel 1907 sulla rivista «Studium», ad un libro di Adolfo Cellini, Gli ultimi capi del Tetramorfo e la critica razionalistica.
Al centro delle critiche rivolte al volume di Cellini era il concetto di teologia, intesa come discorso razionale su Dio. La questione, sollevata in quel libro, se i Vangeli offrissero o meno una sufficiente garanzia ad un’affermazione storica appariva a Nardi mal posta. Il problema, egli obiettava, era piuttosto quello di liberare l’indagine razionale dall’interferenza della fede e, specularmente, di liberare la fede dall’abbraccio soffocante dell’indagine razionale. Soltanto in questo modo ragione e fede potevano essere ristabilite ciascuna nel proprio ambito di giurisdizione, evitando l’indebito sovrapporsi del giudizio storico, che ha sempre contenuto logico, all’atto di fede, che viceversa presuppone un assenso al dogma non condizionato dal giudizio. L’impostazione conferita da Nardi al problema, osserva giustamente la Pietroforte, si rivelava fatale per la teologia. Assorbendo in sé ogni contenuto razionale, l’indagine storica concludeva infatti alla neutralizzazione del discorso teologico, inteso quale luogo della mediazione tra l’infinità di Dio e il pensiero umano. La rimozione del giudizio dalla sfera della fede implicava, più precisamente, che il contenuto della teologia, logico e ultralogico ad un tempo, si scindesse internamente e refluisse per un verso nell’indagine razionale, per un altro nel dogma. Dissolto il nesso contraddittorio che le teneva unite, fede e ragione restavano dunque giustapposte, senza che tra la prima e la seconda, tra il mondo dei giudizi e quello dei pregiudizi, si dessero passaggi di sorta. Come la fede, protetta dalla sua intangibile purezza, non poteva essere scalfita dall’indagine storica, fosse anche riuscita quest’ultima a dimostrare inverosimile ogni proposizione evangelica, così l’indagine storica, d’altra parte, obbediva unicamente alla propria interna legge di attuazione, senza dover cercare l’accordo con le verità della fede.
Questi temi, nota la Pietroforte, documentano l’impressione rilasciata sul giovane Nardi dalla lettura di Loisy. Si direbbe anzi che intorno ad essi si disponga il nucleo più profondo e originale della sua storiografia. La coscienza modernista di una invincibile sproporzione tra ragione e fede, indagine storica e mistero divino, trova infatti espressione, in sede di esegesi dantesca, nell’attenzione che fin dalla tesi di laurea su Sigieri di Brabante e Dante, del 1911, Nardi concesse alla cosiddetta dottrina della “doppia verità”, con la quale l’averroismo latino aveva cercato di teorizzare una netta separazione tra ragione naturale e verità di fede, discorso filosofico e rivelazione. Ma sarà soprattutto l’interpretazione del III libro della Monarchia, degli anni immediatamente successivi, a consegnare il tema della “duplice verità” alla sua più matura elaborazione storiografica, definendosi nel confronto polemico con letture inclini, per pregiudizio tomistico, a strutturare gerarchicamente il rapporto tra imperatore e papa, felicità terrena e beatitudine celeste. E già in un saggio del 1921, dedicato al problema della conoscenza umana in Dante, poi ripubblicato in Dante e la cultura medievale (1940), Nardi scriveva che «coll’assegnare all’humana civilitas un proprio destino naturale, diverso da quello soprannaturale, col distinguere i documenta phylosophica dai documenta revelata, e col fondare su questa distinzione l’indipendenza del potere civile da quello ecclesiastico, Dante veniva implicitamente a proclamare l’autonomia e i diritti della ragione di fronte alla fede e ad accostarsi alla teoria della duplice verità professata dagli averroisti del suo tempo». L’«autonomia della ragione di fronte alla fede» proclamata nella Monarchia rappresentava inoltre, nell’interpretazione di Nardi, uno svolgimento delle tensioni interne al simbolo della Donna gentile del Convivio. Ambiguamente la Donna gentile – osservava lo studioso in quel medesimo scritto – è da una parte la scienza umana, la filosofia di Aristotele e Boezio, dall’altra è la «Sapienza dei libri salomonici, il Logo del Vangelo giovanneo», la mente divina che si cela allo sguardo dei mortali: perfezione dell’intelletto umano nel primo caso, limite conoscitivo che la ragione naturale non può oltrepassare nel secondo. «Ma benché – precisava Nardi – la mente dell’uomo sia inadeguata a comprendere la verità assoluta, pure in qualche modo l’intravede; e da questo confuso intravedere, che è consapevolezza dei propri limiti naturali, nasce la persuasione che “ogni miracolo – e qui egli citava un luogo del terzo trattato del Convivio – in più alto intelletto puote avere ragione, e per consequente puote essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine”». Parole nelle quali il nesso che Dantestabilisce nel Convivio tra il mondo umano e la trascendenza è ricostruito, se non ci si inganna, secondo una sensibilità modernista. E basterà richiamare, a tale proposito, una lettera scritta da Loisy nel 1906, opportunamente citata dalla Pietroforte (Introduzione, pp. xxx-xxi), nella quale si afferma che l’impotenza conoscitiva della ragione rispetto a ciò che infinitamente la trascende assicura per un verso il carattere razionale della fede, nella misura in cui è la ragione che, sperimentandosi debole e limitata, giunge a postulare la trascendenza, per un altro fonda lo specifico della ragione medesima, che nella distanza incolmabile dalla verità suprema, toccando il proprio limite, arriva a circoscrivere e a definire se stessa. Dio insomma è per Loisy la radice della ragione umana, pur sottraendosi, di per sé, ad ogni dimostrazione razionale.
É essenzialmente convogliando intorno a questo paradosso, di ascendenza modernista, frammenti di idealismo e, soprattutto, come si vedrà, di rosminianesimo, che Nardi elaborò la sua reazione in termini dottrinali al neotomismo.
Il problema, discusso dalla Pietroforte in più punti del suo saggio, merita forse qualche approfondimento, in rapporto specialmente all’interpretazione nardiana del pensiero dantesco. Converrà ancora muovere, per illustrare la questione, dal citato saggio sulla conoscenza umana secondo Dante, in un paragrafo del quale sono ripercorse le posizioni fondamentali della scolastica intorno al problema della verità.
Dopo aver esaminato le varie dottrine sorte sul terreno dell’esegesi tardo-antica e medievale di Aristotele, lo studioso si sofferma, più specificamente, sull’opposizione tra aristotelismo tomistico e platonismo agostiniano, quest’ultimo giudicato alla base della teoria dantesca della conoscenza. Osservava dunque Nardi che mentre Tommaso concepisce «l’individualità dell’intelligenza umana» in modo empirico, come «cosa tra le cose», tanto che in lui la soggettività è «coartata e quasi soffocata dalla realtà oggettiva», platonici e agostiniani avevano avvertito, al contrario, che era «impossibile fondare l’assolutezza della verità e della scienza sull’individualità concepita empiricamente», se ci si voleva sottrarre al relativismo degli scettici. Da qui, proseguiva Nardi, era nato il bisogno di «confortare la debolezza dell’intelletto umano colla luce della verità assoluta». É vero, precisava lo studioso, che «questa verità assoluta, nel platonismo antico, è totalmente oggettiva, trascendente ed estranea all’anima, la cui soggettività e autonomia restavano così distrutte». Ma ciò non è più vero «nel neoplatonismo e nel platonismo cristiano degli agostinisti», per i quali «la luce divina non è... ricevuta a mo’ d’oggetto esterno», bensì «coopera intimamente all’atto dell’intendere umano, di guisa che questo è effetto di una duplice causa, naturale e divina». «In siffatta dottrina – concludeva lo studioso – è facile avvertire come un bisogno di trasferire il soggetto empirico nel vero soggetto assoluto, che è causa auto-cosciente dell’essere di tutte le cose: “in ipso enim vivimus et movemur et sumus”. L’immanenza del divino nell’umano non poteva essere asserita più energicamente, sebbene l’intellettualismo platonico-aristotelico, infiltratosi di buon’ora nella teologia, dovesse per tanto tempo impedire a questa feconda intuizione cristiana di esplicarsi liberamente».
Al centro di questa pagina, così diversa, per tensione speculativa, da tante altre pagine dantesche di Nardi, dove l’erudizione normalmente prevale sull’impegno teoretico, è la questione, per lui decisiva, del rapporto tra Tommaso e il pensiero moderno. Porre tale questione significava chiedersi, in definitiva, quanto di idealismo, inteso come la massima espressione di quel pensiero, fosse anticipato nella filosofia dell’Aquinate; se cioè nella teoria tomistica della conoscenza fosse dato scorgere qualcosa come la forma incoativa di quella «immanenza del divino nell’umano», di quel trasferimento del «soggetto empirico nel soggetto assoluto», definito da Nardi «causa auto-cosciente dell’essere di tutte le cose», cui la filosofia idealistica aveva conferito piena realtà.
La questione, come si deduce dalle parole citate sopra, fu da lui risolta negativamente: in polemica sia con la neoscolastica tomistica sia con quanti, da posizioni idealistiche, scorgevano nel pensiero di Tommaso il primo manifestarsi, l’albeggiare della coscienza filosofica moderna. Questa era stata, ad esempio, la tesi che Gentile aveva sostenuta ne I problemi della scolastica e il pensiero moderno e che Nardi aveva già avuto occasione di discutere, respingendola, in una recensione apparsa nel 1913 su«La Voce». Gli argomenti impiegati in quella prima confutazione, la cui rilevanza non è sfuggita alla Pietroforte (pp. LXXVII-LXXX dell’Introduzione), sono riproposti da Nardi nel saggio dantesco del ’21, nel quale essi ricevono un’articolazione più ampia.
Nardi affermava, in sostanza, che non in Tommaso doveva rinvenirsi il precursore del soggettivismo moderno, bensì nei pensatori francescani, eredi del platonismo agostiniano, i quali avevano avuto il merito di trasferire all’interno dell’anima umana il principio dell’attività conoscitiva. Costoro concepivano infatti la verità come uno svolgimento delle conoscenze impresse da Dio nell’anima di ogni uomo. Da intendersi, queste ultime, non come semplici disposizioni a ricevere il contenuto dell’esperienza, alla maniera di Tommaso, bensì come vere e proprie forme, benché incomplete, di conoscenza, pronte a far germogliare, sotto l’azione e lo stimolo dei sensi, la perfezione dell’atto conoscitivo: scintille di verità irradiate nella mente umana dall’intelletto divino.
Per questa via Nardi giungeva ad unificare, in nome della battaglia contro la logica aristotelico-tomistica, le membra desiecta del neoplatonismo cristiano, dall’agostinismo medievale al saggio di Rosmini sull’origine delle idee, e tra questa linea e l’idealismo assoluto stabiliva un rapporto di continuità, nel segno di un progressivo inveramento dell’autonomia dello spirito. Il neotomismo, nel quale sopravviveva la vecchia metafisica, era respinto invece da Nardi al di fuori di questa linea: chiuso nell’insuperabile dualismo tra soggetto e oggetto, concetto e mondo esterno, esso era condannato, in senso tecnico, all’inattualità, incapace a realizzare l’abbraccio vivificante con il pensiero moderno.
Si comprende allora come l’interpretazione di Tommaso fosse per Nardi un problema filosofico prima ancora che filologico. Se si fosse riconosciuto nel teologo domenicano il precursore dell’immanenza dell’atto conoscitivo, si sarebbe poi dovuto ammettere, necessariamente, che all’interno del neotomismo, negli uomini e nelle istituzioni che lo rappresentavano, circolava in realtà più filosofia moderna di quanta non ne circolasse, ad esempio, nei suoi oppositori, rosminiani o modernisti che fossero.
Nardi lasciò che a smentire questa conclusione fosse l’indagine storica. All’esame dei testi la presunta affinità si rivelava infatti un errore, che aveva peraltro le sue specifiche ragioni, anch’esse dottrinali e dalle quali si poteva essere tratti in inganno. «Col dichiarare intrinseci alla mente umana l’intelletto agente e l’habitus principiorum» Tommaso sembrava, in effetti, aver davvero inaugurato «l’attività dell’uomo fatto capace di creare da sé la sua verità», ma tale anticipazione, ammoniva Nardi, era soltanto illusoria, poiché tra l’intelletto agente, perfezione che astrae dalla materia le forme intelligibili, e l’abito dei primi principi, che è puro istinto, determinazione accidentale, è impossibile che si dia un’attività conoscitiva interna alla sostanza. Ciò che inizialmente appariva dunque autonomia dello spirito rivelava, alla luce dell’indagine storica, la sua autentica fisionomia: estromissione del soggetto dalla «creazione» della verità, collocata «fuori e al di sopra della mente umana». E la soggettività, che si pretendeva esaltata, invece si perdeva, «coartata e quasi soffocata – scriveva Nardi – dalla realtà oggettiva che circonda e opprime lo spirito da ogni parte».
Si è già visto come l’aver posto la cooperazione, nell’atto dell’intendere, tra la luce divina e la sostanza creata, anticipando lo spirito della filosofia moderna, fosse per Nardi merito da ascrivere ad una diversa tradizione di pensiero, quella del platonismo cristiano, al tempo di Dante viva soprattutto nella scolastica francescana. La luce divina deposita nella mente umana i primi germi di verità e con ciò la rende capace di conquistarsi l’assoluto: trascendente ed estrinseca all’anima, quella luce, se considerata in sé, nella sua purezza; viceversa congiunta intimamente alla creatura se considerata in quanto intelletto universale, radice e condizione di ogni vero.
Intorno alla teoria dell’illuminazione divina, oggetto per altro di una magistrale e accuratissima ricostruzione storica, quel che prendeva corpo e si rendeva visibile non era soltanto un quadro più ricco delle fonti del pensiero dantesco, bensì la stessa concezione nardiana del pensiero, all’interno della quale la pretesa modernistica di dedurre la trascendenza dall’immanenza conviveva e si intrecciava con l’innatismo rosminiano e, come si vedrà, con la logica crociana.
Di questo complesso di dottrine ci si limiti a considerare, per ora, l’influenza esercitata su Nardi dall’opera di Antonio Rosmini, tema più volte alluso nel saggio della Pietroforte.  É sufficiente che si citi, per introdurre l’argomento, la pagina finale del saggio L’origine dell’anima umana secondo Dante, che Nardi pubblicònel 1931 sul «Giornale critico della filosofia italiana» e che fu in seguito raccolto negli Studi di filosofia medievale, del 1960. In questa pagina, riprendendo in parte concetti già svolti nel più antico saggio sulla conoscenza umana e dopo aver ricondotto ancora una volta il pensiero dantesco sull’anima intellettiva ai principi della metafisica neoplatonica, Nardi riassumeva così il senso del suo ragionamento: «mentre per Tommaso l’anima intellettiva è un’essenza individuale, incapace di quella vera universalità che è propria solo di Dio, il quale tutto conosce in quanto tutto crea; per Dante, invece, il cui pensiero è dominato da un sistema di metafisica neoplatonica, la mente umana partecipa, come Proclo, “de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale da li filosofi chiamato”... Raggiando sull’anima umana, la luce divina imprime in essa la sua somiglianza, e la rende capace di elevarsi fino al vero eterno, di fuor dal quale nessun vero si spazia». Questo ardito concetto – proseguiva Nardi – «nel quale si celebra il mistico connubio dell’umano col divino, arrise alla mente del nostro Rosmini, quando affermava che la luce dell’Essere ideale, illuminando l’anima sensitiva, produce in essa la facoltà d’intendere e fonda l’universalità, l’obiettività e l’assolutezza della conoscenza umana».
L’ardito concetto cui Nardi fa qui riferimento si trova esposto nel primo volume della Teosofia e costituisce la XX delle XL proposizioni rosminiane che nel 1888, come ricorda lo stesso Nardi in una nota a piè di pagina, vennero condannate dal Tribunale della Santa Inquisizione. Il senso di quella dottrina, così come la si trova illustrata dal Morando nell’Esame critico delle XL proposizioni condannate (Milano 1905, p. 301), volume spesso citato e utilizzato da Nardi, è che la produzione dell’anima intellettiva avviene per un atto creativo di Dio, ma senza che ciò corrompa l’anima sensitiva già formata. Le funzioni dell’anima sensitiva vengono infatti sussunte dall’anima razionale, sicché mentre prima essa aveva per termine il corpo ed era puramente sensitiva, dopo la creazione divina ha per termine, ad un tempo, il corpo e la luce eterna dell’essere ideale, è cioè sensitiva e intellettiva. La luce dell’essere ideale che Dio irradia nell’anima umana, rendendola capace di conoscere, non è altro che l’idea ancora indifferenziata dell’essere, alla quale è riconducibile ogni altra idea; idea innata, della quale non si ha alcuna percezione fin tanto che non si produca l’unione tra l’elemento formale e l’elemento materiale del conoscere, vale a dire la sintesi, soggettivo-oggettiva, tra l’idea e l’esperienza. Soltanto in questo modo l’essere ideale diviene oggetto di intuito, autocoscienza dello spirito, e dà luogo alla categoria fondamentale del conoscere, produttiva di tutte le altre. Ogni forma ulteriore di conoscenza non è che uno sviluppo, in effetti, di questa conoscenza sintetica originaria, la quale è immanenza del trascendente, «connubio – come scrive Nardi – dell’umano con il divino». La luce deposta da Dio nell’anima umana riverbera infatti sull’esperienza e la trasforma: la oggettivizza rendendola intelligibile.
In questa dottrina, qui esposta di necessità in modo sommario, Nardi trovava diversi elementi di assonanza con il proprio pensiero. Una dottrina dell’illuminazione divina, per cominciare, che consentiva di configurare l’atto dell’intendere come collaborazione di umano e divino, atto soggettivo e oggettivo ad un tempo, e che, nel segno di questa cooperazione, fosse accostabile al neoplatonismo medievale e a Dante.
Nardi trovava inoltre elaborata in Rosmini un’idea della forma, che in contrasto con la tradizione aristotelico-tomistica e rifacendosi piuttosto alla dottrina agostiniana delle rationes seminales, permetteva di concepire la generazione dell’uomo non come successione discontinua di perfezioni, ognuna delle quali, sopravvenendo, distruggeva le perfezioni anteriori, bensì come moto continuo dal meno perfetto al più perfetto, nel quale ogni grado ulteriore di perfezione superava e includeva, senza corromperlo, il precedente. Com’è noto di questa concezione della forma Nardi fece la chiave di volta della sua interpretazione “eterodossa” del pensiero di Dante, in polemica soprattutto con il p. Busnelli, gesuita e fervente neotomista. Al Busnelli Nardi obiettava che, per il modo di intendere la forma, Dante era da avvicinare ad Alberto Magno, il quale aveva sviluppato, su base agostiniana, l’idea che nella materia fosse presente un cominciamento della forma medesima (incohatio formae), più che a Tommaso, per il quale, al contrario, come la materia era disposizione puramente passiva, così la forma era immobile e chiusa nella sua perfezione, al pari di ogni altro atto. Meno noto tuttavia - ed è merito della Pietroforte avervi insistito - è che questa stessa concezione, ricostruita e indagata da Nardi in vari saggi danteschi, era la stessa che Loisy aveva difeso, ad altro proposito, nelle pagine de L’Évangile et l’Église impegnate a discutere l’Essenza del cristianesimo di Harnak. Pagine familiari a Nardi, che ad esse aveva rimandato in una recensione polemica a Il nuovo protestantesimo di Giuseppe Rensi, apparsa nel 1907 su «Critica Sociale». Alla concezione soggettivistica di Harnak, «Loisy oppone – scriveva Nardi in quello scritto – il concetto di una evoluzione dinamica del cristianesimo, il quale sbocciando da un piccolo germe, ricco di energia latente, cresce ed afferma ad ogni momento del suo progresso la forma iniziale che costituisce, per così dire, la sua essenza fisica. Se l’essenza dell’albero – si domanda Loisy – è contenuta in un piccolo germe, non si dovrebbe dire con più verità che essa è realizzata in modo più perfetto nell’albero già sviluppato che nel germe? Il processo di assimilazione per il quale è avvenuto lo sviluppo si deve forse ritenere come un’alterazione di quell’essenza, anziché come condizione indispensabile del suo essere, della sua conservazione e del suo crescere in una vita sempre la stessa e in continua rinnovazione? [...] In questo sviluppo sta la vitalità del cristianesimo; vitalità che perderebbe quando fosse ridotto, come nel caso dei nuovi protestanti, ad un’entità metafisica».
Agli occhi del giovane studioso, deciso a sfatare la leggenda del tomismo dell’Alighieri, Rosmini e Loisy, pensatori entrambi aspramente avversati dal cattolicesimo ortodosso, apparivano dunque uniti nel professare una dottrina della forma alternativa a quella aristotelico-tomistica. Circostanza dalla quale Nardi doveva essere sospinto a ricercare, di tale dottrina, i lontani antecedenti e la presenza in Dante, dando vita ad una storiografia dantesca in cui l’indagine storico-filologica era il frutto non dell’erudizione, bensì del confronto con il pensiero contemporaneo.
Ma nelle dottrine rosminiane Nardi non avvertiva soltanto echi modernisti. Difficilmente, ad esempio, la nozione rosminiana dell’Essere ideale, avrebbe potuto non evocare in lui, appassionato lettore di Croce, motivi e concetti della filosofia dello spirito, tanto più che la posizione di Rosmini rispetto all’idealismo maturo era stata discussa nel Rosmini e Gioberti di Gentile, un libro che sicuramente Nardi conobbe ed ammirò. Non è possibile, in questa sede, insistervi, e del resto del crocianesimo di Nardi discute ampiamente la Pietroforte, nell’introduzione al carteggio. Ci si limita pertanto ad osservare che nella sintesi rosminiana tra l’essere ideale e la realtà empirica, Nardi doveva scorgere, probabilmente, qualcosa di affine alla sintesi di intuizione e concetto propria del giudizio definitorio di Croce. Tanto nell’essere ideale, quanto nel giudizio definitorio Nardi ritrovava infatti quella presenza del divino nell’umano, quella soggettività oggettiva, della quale il Cristo, nella visione di Nardi, costituiva la figura suprema e il supremo simbolo. E non è un caso che nel 1913 polemizzando con la tesi, espressa da Gentile ne I problemi della scolastica e il pensiero italiano, che la filosofia medievale non fosse che la prosecuzione dell’oggettivismo antico, proprio nella «unione inscindibile del mondo soprasensibile, dell’idea, con la realtà empirica», simboleggiata dal Cristo, egli individuasse lo specifico contributo arrecato dal platonismo cristiano ai progressi dello spirito. Il che significava suggerire da parte di Nardi, ancora una volta, che non così distanti tra loro dovevano essere immaginate la filosofia medievale (nella variante neoplatonica) e quella idealistica, se Croce nella Logica aveva affermato che il concetto è insieme universale e concreto, trascendenza e immanenza (trascendentalità), e se nel descrivere la vita ad un tempo eterna e cangiante dello spirito come «perpetua costanza» e «corsa affannosa verso il nuovo», né progressus ad finitum, né progressus ad infinitum, bensìl’una e l’altra cosa insieme, egli aveva voluto raffigurare questo concetto mediante il simbolo del Cristo: «il simbolo dell’umanità non è né Dio né l’uomo – aveva scritto infatti ne Il concetto del divenire e l’hegelismo – ma il Dio-uomo, il Cristo, che è l’eterno nel temporale e il temporale nell’eterno». Ma l’analogia posta da Nardi era appunto, un’analogia: stringeva platonismo cristiano e idealismo in un rapporto di somiglianza nella difformità. Va da sé che la filosofia dello spirito di Croce non poteva essere accettata da Nardi fino alle sue ultime conseguenze, perché accettare integralmente quella filosofia significava rinunziare, inevitabilmente, alla trascendenza. Se si volesse seguire la presenza di questo tema in Nardi, è a una pagina del saggio su Dante profeta che occorrerebbe volgersi, nella quale lo studioso del Medioevo apre un confronto diretto con la Logica di Croce, confutandone il concetto di religione. Argomento di grande interesse, ma che, per la sua complessità, deve essere riservato a future indagini, le quali, per altro, non potranno fare a meno di servirsi di questa edizione del carteggio Nardi-Chiocchetti: non solo per la ricchezza e l’originalità della documentazione proposta, ma anche, e direi soprattutto, per l’acutezza delle riflessioni che la sua curatrice, Stefania Pietroforte, svolge intorno al pensiero di Nardi (oltre che, ovviamente, di Chiocchetti). L’analisi della Pietroforte ci consegna infatti una immagine di Nardi dalla quale non sarà più possibile, d’ora in poi, prescindere: l’immagine di uno studioso che fu il rigoroso ed erudito esploratore delle fonti del pensiero dantesco perché, prima ancora e più intimamente, era l’appassionato interprete delle inquietudini e delle lacerazioni che travagliarono la cultura cattolica italiana di quegli anni.



PUBBLICATO IL : 24-05-2006

 

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