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Antonio Labriola, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, a cura di M. Zanantoni , Ghibli, 2004
di Bostrenghi Daniela
La nuova edizione del saggio giovanile di Antonio Labriola sulla Origine e natura delle passioni secondo l’ Etica di Spinoza curata da Marzio Zanantoniper la collana “Spinozana” di Ghibli ha il merito di consegnare al lettore uno scritto agile e piano, emendato dai filologismi talora eccessivi della pur pregevole edizione messa a punto da Luigi Dal Pane per  i tipi di Feltrinelli nel 1959. Il curatore ha infatti eliminato i frequenti segni introdotti dal suo predecessore a segnalare sviste, arcaismi, interruzioni o cancellazioni nel testo, riducendo all’essenziale le centinaia di note con cui questi aveva minuziosamente segnalato le numerose varianti rinvenute nelle minute labriolane in suo possesso rispetto al testo edito da Croce nel 1906.
Facendo riferimento ad alcune lettere private del maggio-giugno 1867 nelle quali il giovanissimo studioso (appena ventiquattrenne) comunicava alla moglie di essere intento alla preparazione della “Memoria” su Spinoza commissionatagli dall’Università e sulla base di altri elementi storico-biografici, Zanantoni giunge alla conclusione che la stesura compiuta dello scritto si debba far risalire alla seconda metà del 1867, e non al 1866, come a suo tempo sostenne Dal Pane posticipando a sua volta la datazione di Croce, che (sulla base di accertamenti non troppo puntuali) faceva risalire la “Memoria” al 1865.
Le circostanze che indussero il promettente allievo di Bertrando Spaventa a redigere il saggio su Spinoza sono note: il premio di studio bandito dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli per l’a.a. 1866-67. Al di là della questione relativa alla datazione dello scritto e delle sue motivazioni occasionali, di particolare interesse risultano, nell’ampia  Introduzione che Zanantoni premette al testo di Labriola (pp. 9-59), le pagine dedicate alla ricostruzione dell’ideologia politica del liberalismo meridionale all’epoca della Destra Storica. Napoli viveva infatti in quegli anni uno dei periodi più intensi e vivaci dal punto di vista dell’impegno intellettuale e civile dei suoi uomini di cultura : De Sanctis, i fratelli Spaventa, De Meis ricoprivano importanti incarichi pubblici che consentivano  loro di sperimentare  nei fatti quel carattere intrinsecamente ‘politico’, ‘civile’ e dunque educativo della filosofia che avevano appreso dalla lettura entusiasta di Hegel, la cui  Filosofia del  diritto era stata tradotta per la prima volta a Napoli nel 1848 ed accolta in un clima carico di aspettative di rinnovamento e progresso, se non di rivoluzione.
Lo stesso Labriola, d’altra parte, in una lettera a Sorel del maggio 1897, sottolineava il carattere progressivo del gruppo degli idealisti napoletani appartenenti a quella generazione: “Nel tutt’insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo  alla francese e della filosofia del cosiddetto buon senso […]. Quegli hegeliani scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a Napoli, ma a Berlino, o non so dove…”, mostrandosi così aperti alle istanze più moderne ed avanzate della cultura europea di quegli anni (la lettera figura in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1965, pp. 212-213) . Quale fu allora il limite di tale rinnovamento e perché il giovane cassinate andò progressivamente ma con fermezza distanziandosi da quelle posizioni, pur così significative per la sua formazione ?
Il punto di continuità, ma anche di rottura, di Labriola con i suoi maestri napoletani  (primo fra tuttiSpaventa) fu proprio Hegel e la sua concezione della storia e dello Stato, con la rilevanza così forte data al momento dell’eticità. Facendo astrazione infatti dalla società civile e dalle dinamiche concrete della dialettica storica in nome di una più elevata sintesi dell’ideale col reale, quella concezione dello Stato divenne “utopica”  (così Labriola scriveva a Croce nel 1898), ovvero non più capace di misurarsi efficacemente con le forze sociali nuove che andavano emergendo nel contesto post-risorgimentale, con l’accentuarsi, tra l’altro, di quel divario tra il Nord ed il Sud del paese in seguito evidenziato da Gramsci nei Quaderni.  In questo contesto – osserva giustamente Zanantoni – “Labriola si lascia dietro per sempre certo non Hegel, ma quell’assunzione etica di Hegel, certo non lo Stato, quello borghese che  anzi sarà sempre al centro della sua critica, ma lo ‘Stato etico’, quello immaginato e sognato da quei liberali di Napoli” (Introduzione, p. 47).
Nonostante l’approdo certo e meditato al materialismo storico ed il netto rifiuto dell’idealismo, il riferimento a Hegel resterà infatti un problema “aperto” nella ricostruzione del pensiero di Labriola, così come “aperto” – e non privo di elementi problematici – è da considerare il suo riferimento a Spinoza. Anzi, si può ipotizzare  a ragion veduta che la lettura dell’Etica propostagli da Spaventa in occasione del premio universitario abbia  fornito al brillante allievo, poco più che ventenne, gli strumenti necessari per iniziare ad elaborare il suo itinerario di differenziazione dal maestro e mettere a fuoco – attraverso un percorso né lineare né breve - una sua propria ed originale concezione della filosofia e della storia.   
Come è noto, egli stesso ricorda in una lettera del 1897 in cui rievoca gli anni della formazione giovanile di aver vissuto a lungo “con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza”: dell’uno difese la dialettica contro lo Zeller che iniziava il neokantismo, dell’altro – prosegue – “sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni” (di nuovo in La concezione materialistica della storia, cit., p. 214). Ma che cosa cercava nell’Etica, ed in particolare nella sua teoria degli affetti e delle passioni” ? e quali furono le risposte che il filosofo di Amsterdam poté dare al suo giovane ed entusiasta lettore ? Secondo il curatore della nuova edizione del saggio, il primo elemento che Labriola trasse dalla lettura attenta di Spinoza fu lo spunto per una riflessione di metodo: alla luce della definizione di “modo” come “ciò che è in altro, per mezzo del quale anche è concepito” (Etica, I, def. 5), egli intuì infatti la possibilità di cogliere la molteplicità all’interno dell’unità della Sostanza, nella quale invece Spaventa era più incline a leggere l’identità che la differenziazione.
Secondo Zanardi queste prime riflessioni – a prescindere dal riferimento specifico a Spinoza - furono essenziali al ventiquattrenne Labriola per individuare i presupposti di una nuova e sua propria metodologia analitica. Lo indussero infatti a considerare i fenomeni storici come “organismi individuali” di cui va indagata la distinzione o la genesi, di contro all’idea tutta hegeliana del divenire storico quale totalità processuale dialettica in cui il vero si compie soltanto nella continuità dell’intero.  A parere di Zanardi, fu dunque la lettura di Spinoza che consentì a Labriola di operare la “rottura epistemologica” con Hegel e, soprattutto, con il modo in cui all’epoca intendevano Hegel gli idealisti napoletani  sulla scia di Spaventa.
Ma, a nostro avviso, la lettura dell’Etica, e in particolare della III Parte, offrì al giovane studioso la possibilità di cogliere altri elementi di ‘discontinuità’ e ‘rottura’.  Egli sentì infatti molto vicina alla propria sensibilità ed inclinazione la spinoziana “teorica delle passioni”, definita nel saggio  del 1867 non come un punto accessorio, ma “il centro stesso del sistema” (p. 107). Ciò che colpì maggiormente l’acuto lettore fu senza dubbio il carattere laico e deterministico dell’etica spinoziana (che lo portò ad intuire alcuni opportuni accostamenti con Hobbes), la centralità del conatus, efficacemente illustrato nel saggio sulle passioni nei termini di “energia di esistere” (p. 80), il conflitto tra necessità e libertà, la rilevanza data alla della natura ‘egoistica’ dell’uomo intesa naturalisticamente come sforzo conservativo di sé.  Elementi tutti di novità ed anomalia dell’Etica di Spinoza, di sua discontinuità con la tradizione (ebraico-cristiana e scolastico-cartesiana)  che determinarono la netta rottura del filosofo di Amsterdam con i canoni teologici e morali tradizionali. Non a caso il ventiquattrenne ed impetuoso Labriola ne sottolineava la radicale differenziazione dalla “veduta ordinaria dei moralisti”, facendo propria una vis polemica che emerge con toni accesi in particolare nella minuta preparatoria del saggio, poi soppressa nella sua versione ufficiale.
Smontando e rimontando il testo dell’Etica così come il giovane Marx – anch’egli poco più che ventenne – fece a suo tempo con il Trattato teologico-politico quandoerastudente a Berlino (si veda il “Quaderno Spinoza” del 1841),  Labriola condivise  con l’ ‘ateo virtuoso’ l’istanza di intendere l’uomo “come potenza naturale senza il presupposto metafisico del bene come qualcosa di sostanziale e senza la pretenzione di predicar morale là dove parla la legge della natura” (p. 107). Per concludere, una presenza profonda quella del filosofo di Amsterdam, anche se a tratti problematica come testimoniano i riferimenti, talora anche critici, che figurano negli scritti della maturità. Così come in Marx Labriola non andò cercando “l’abicì’ del sapere”, ma di certo gli elementi peculiari e fondanti del materialismo storico (lettera a Turati del 5 giugno 1897), allo stesso modo egli da Spinoza  non pretese la risposta certa e definitiva agli interrogativi che andava ponendosi negli anni della sua formazione.  E’indubbio, tuttavia, che la lettura dell’Etica gli fornì gli elementi per avviare quella “rottura” che  - non senza crisi e conflitto - prese avvio proprio dal confronto serrato con le pagine cristalline della III Parte  che ci insegnano a trattare delle passioni come se fosse questione di linee, di superfici  e di corpi.
Dunque per Labriola Spinoza non divenne un “cane morto”, come  ai tempi di Jacobi e Lessing lo dipingeva Moses Meldelsshon e come taluni mediocri epigoni consideravano Hegel ai tempi del Capitale di Marx; egli rimase, al contrario, un interlocutore vivo e presente anche al confronto teorico degli anni a venire.


PUBBLICATO IL : 23-02-2006

 

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