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AA.VV., Garin e il Novecento (in "Giornale critico della filosofia italiana") , Le Lettere, 2009
di Stefania Pietroforte

Gli studi che Eugenio Garin (1929-2009) ha dedicato alla filosofia dell’Umanesimo e del Rinascimento sono noti a tutti, esperti e meno esperti, per la grande importanza che hanno avuto per la conoscenza e la comprensione di quell’epoca storica e di ciò che essa ha significato per i secoli successivi. Sono studi che hanno dato a Garin un ampio riconoscimento da parte dell’intera comunità scientifica e che hanno lasciato una traccia profonda, costituendo un esempio e un insegnamento che, soprattutto nel nostro paese, ha trovato degni seguaci.
         Eppure Eugenio Garin non è stato solo un grande studioso dell’Umanesimo e del Rinascimento; è stato anche autore di numerosi volumi dedicati alla filosofia italiana del Novecento nei quali si indaga la storia della nostra cultura filosofica che è, insieme, per molti versi, la storia intellettuale dello stesso Garin. Cronache di filosofia italiana (1955), Filosofia come sapere storico (1959), La cultura italiana tra ‘800 e ‘900 (1962), Intellettuali italiani del XX secolo (1974) sono libri scritti con la stessa passione e attenzione dei saggi dedicati a L’Umanesimo italiano (1952), a Medioevo e Rinascimento (1954) o a L’educazione in Europa 1400-1600 (1957), ma sporge da quelle pagine in modo più nitido che l’interesse di Garin è quello di mettere in risalto, sul piano degli eventi, il ruolo svolto dai ceti intellettuali nei momenti di più forte spinta emancipativa o, al contrario, di involuzione politica e culturale e di mettere in luce, sul piano della riflessione filosofica, la natura squisitamente storica del pensiero. Quest’ultimo punto è quello che negli scritti sul Novecento la penna fine di Garin nasconderebbe malamente. Sarebbe difficile celare, infatti, il profondo legame che il suo modo di fare la storia del pensiero intreccia con questa concezione filosofica. Sarebbe difficile non vedere come essa ne sia l’anima e il centro propulsore. I saggi dedicati al Novecento sono quelli nei quali, più che altrove, la filosofia emerge dalla trattazione storica e si identifica con essa. Essi rappresentano il luogo in cui Garin di quella concezione filosofica esibisce e difende la legittimità. Perciò è proprio in questi scritti che possiamo rintracciare il principio filosofico al quale si ricollega anche il resto del suo lavoro storico.
         A Garin e il Novecento (Firenze, Le lettere 2009) il “Giornale critico della filosofia italiana” ha voluto dedicare l’intero fascicolo di Maggio-Agosto 2009, allestendo un volume che, con il contributo di dieci autori (Maurizio Torrini, Alessandro Savorelli, Gabriele Turi, Claudio Cesa, Gennaro Sasso, Carlo Borghero, Massimo Ferrari, Gianpasquale Santomassimo, Saverio Ricci, Giovanni Mastroianni), scava nell’humus ideale nel quale Garin ha sviluppato il suo pensiero.
Ciò che si ricava dalla lettura dei saggi, detto in maniera succinta, è che Eugenio Garin nel suo laborioso esame del Novecento è stato animato da due intenti: da una parte svolgere il più ampiamente possibile l’idea di filosofia che egli si era venuto formando negli anni giovanili alla scuola di Limentani e del positivismo fiorentino del primo Novecento; dall’altra riuscire ad affermare con forza la storicità del pensiero, dunque la storicità della filosofia, cioè il suo essere essenzialmente fatto umano, natura contingente, non “eternità” connessa al divenire temporale ma espressione, come altre, di un sapere umano prodotto dagli eventi della storia sociale, materiale e intellettuale dei popoli.
         Diciamo subito a proposito del primo, del quale ampiamente tratta Alessandro Savorelli (L’eredità del positivismo), che il “positivismo” dei suoi maestri era da Garin concepito in modo affatto particolare. Era una filosofia «che non intende sacrificare né “il pensiero né la vita”». Avversa alle costruzioni sistematiche e all’intellettualismo astratto, contraria alle «“schiere bene ordinate di lucidi concetti”» e alle «“girandole di ferrei sillogismi”», essa si proponeva piuttosto come « “una modesta antropologia, immersa nella comune esperienza” », e assumeva i tratti «più che di un metodo, di una pensosa interiorità, quasi di moralisti “nel senso classico della parola” »(p. 253). Una filosofia che sosteneva il primato dell’esistenza e dell’azione morale, che intendeva conciliare «nella concretezza dell’esperienza e non in un astratto assoluto o in una storia a priori o in una forma di “determinismo sociologico”, “l’umiltà della carne con la dignità dello spirito” ». Il positivismo di cui parla Garin era quello della crisi del positivismo, un positivismo sui generis che quasi coincide con l’antipositivismo, come dice Savorelli. Nelle Cronache di filosofia italiana parlando di Limentani, di Vailati, di Calderoni, che lo avevano rappresentato, Garin attribuisce loro un’identità che, osserva Savorelli, «è più concetto differenziale, risulta cioè più che altro dalla negazione dei caratteri del positivismo ‘dogmatico’: rinuncia alla costruzione di sistemi, atteggiamento antiretorico, gusto delle questioni metodologiche e per la concretezza delle ricerche (logiche, psicologiche, linguistiche, morali), diffidenza per le soluzioni verbalistiche, attenzione al mondo umano, “spinta umanistica”, consapevolezza della storicità e mutevolezza delle categorie, attenzione alla sfera della prassi e al suo rapporto con la conoscenza (“senso dell’uomo e possibilità dell’azione”). Questo positivismo è in realtà di uso ‘regolativo’ e coincide di fatto, una volta respinto il positivismo ‘ufficiale’ e i suoi equivoci, con la dissoluzione della categoria storiografica relativa e quasi con la perdita del ‘positivismo’ come oggetto storico: Garin vi scorge insieme quasi solo l’indicazione di problemi, momenti della propria biografia e formazione, convergenze politiche (l’opposizione al regime), esigenze insoddisfatte destinate a smarrirsi reciprocamente nelle negazioni degli idealisti e nella marginalità dei ‘positivisti’: “ai positivisti spettava …il compito di chiarire e rafforzare il senso ‘umano’ della scienza della natura, e quindi il nesso scienza-filosofia; agli idealisti quello di sottolineare il valore ‘scientifico’ della storia: ad entrambi di mostrare la convergenza fra ‘storia degli uomini’ e ‘storia della natura’ ”. Sembra evidente che qui non è quasi più questione di interpretazione storica: il positivismo ‘critico’ che Garin delinea sommariamente coincide non tanto con le specifiche posizioni teoriche e storiche, ma col ‘programma’ dello storicismo umanistico e civile di Garin stesso, ossia della filosofia “come sapere storico”, cui avrebbe dato consistenza teorica di lì a breve, nel volume del ‘59»(pp. 258-59).
         Questo passo di Savorelli raccoglie diversi motivi e questioni. Anzitutto rimarca con forza la distanza del positivismo studiato e propugnato da Garin rispetto al positivismo trionfante nell’Ottocento. Il primo si distinguerebbe così tanto dal secondo che la sua definizione risulta per negazione dei caratteri di questo, e tanto questo è dogmatico e fideista, tanto tende a trasfigurare il valore della scienza in una metafisica dotata di valore assoluto, quanto, al contrario, il ‘positivismo’ di cui Garin accredita i suoi maestri è invece alieno dalle costruzioni generali, dai sistemi, è deliberatamente dedito a ricerche concrete e limitate; tanto il secondo tende a fissarsi come dottrina eternamente valida, quanto il primo sottolinea strenuamente la storicità delle categorie che studia e che usa; tanto il secondo, partendo dal mondo umano tende ad elevare questo stesso al di sopra dei singoli e delle loro vicende, quanto il primo, invece, vuole significare come proprio nei singoli, nelle esistenze contingenti degli uomini di questa o quella epoca, si trovino le scaturigini dei fenomeni logici, psicologici, linguistici o morali, presi in esame. E’ un primato dell’esistenza e, in essa, del problema morale quello che descrive Garin presentando a suo modo le dottrine di Limentani o di Vailati. La storicità delle categorie non ha qui niente a che fare con la storicità, per esempio, intesa da Hegel. La loro mutevolezza non è rappresentativa di momenti diversi dello sviluppo organico dell’Assoluto. E’ una differenza senza unità, un aderire al mondo umano, segnato dal tempo e dalle azioni degli individui. Un orizzonte esistenzialistico (come nel suo saggio accenna Sasso, riprendendo la definizione già proposta in altra sede da Ciliberto)? Forse. Ma, meglio ancora, quel rovesciamento della teologia di cui parla Claudio Cesa (Eugenio Garin tra Croce e Gentile) che, nel segnalare come in Garin giovane vi sia stata una svolta dalla credenza nel trascendente all’abbandono di questa prospettiva, puntualizza «il modo con cui Garin intendeva il ‘rovesciamento’ della ‘teologia’: non, secondo la accezione più corrente, disvelamento delle alienazioni in Dio degli attributi umani, e relative riappropriazioni di esse, bensì sostituzione, alla preghiera, del lavoro, con la stessa dedizione che se a giudicare fosse Iddio, e senza aspettarsi alcun riconoscimento terreno»(p. 305). Come a dire che il mondo della storia di cui ora si parla è un mondo senza nessun assoluto, né quello della fede né quello che si costruisce quando, riappropriandosi degli attributi di Dio, gli uomini gli si sostituiscono. Un mondo dove il lavoro soppianta la preghiera è un mondo solo umano. E se in questa situazione non ci si deve aspettare alcun riconoscimento, allora vuol dire che in esso la spinta morale deve essere forte, tanto forte da poter essere motore dell’agire dei singoli. E’ dalla lotta alla teologia che si dischiude il campo al mondo storico come ambito veramente morale, secondo Garin. Non per nulla il suo interesse di storico si rivolse anzitutto a quei filosofi dell’Umanesimo che gettarono le premesse di questa concezione. E non casuale è pure che oggetto della tesi di laurea, assegnatagli da Limentani, fossero stati Butler e i moralisti inglesi. Se si aggiunge poi che del positivismo raccolse l’eredità di Limentani, De Sarlo, della Biblioteca Filosofica di Firenze che si esprimeva, come ricorda Torrini (Il Novecento di Eugenio Garin. Una premessa), nella «persuasione che la “filosofia non si nutre di se stessa” e che “una delle vie d’accesso  al filosofare è proprio la riflessione sugli aspetti esemplari delle varie forme dell’esperienza umana”»(p. 228), ci si rende conto di come tutto questo riveli che nel pensiero di Garin, nel suo impegno intellettuale, c’era un afflato morale, una spinta che, come si è detto e non si può qui più che accennare, identificava nel rovesciamento della teologia la condizione di possibilità della moralità stessa.
         Bisogna aggiungere che il senso morale che era alla base della concezione di Garin non riguardava genericamente la condizione di uomo, ma investiva la sua personale esistenza storica, il fatto di essere italiano, poi di essere uomo adulto durante il ventennio fascista, infine cittadino di una repubblica democratica. Con questa precisazione si comprende meglio anche l’importanza dell’incontro che, a un certo punto della sua vita, Garin fece con Gramsci. La miscela di sentimento morale e storicità radicale del pensiero spingeva Garin a uno studio della storia non anodino ma, al contrario, segnato dal coinvolgimento dell’autore, sotterraneamente guidato, come sostiene Sasso (Garin e Gramsci) dal bisogno di capire l’origine della crisi morale italiana, un male grave che aveva portato fino alla dittatura di Mussolini, una crisi che lui stesso, Garin, aveva di certo avvertito in prima persona e che un profondo turbamento doveva avergli procurato quando si presentò con la modalità dell’estromissione del suo maestro Limentani dall’Università di Firenze in forza delle leggi razziali. La stessa miscela doveva portarlo ad ammirare Gramsci come pensatore e uomo d’azione che sapeva mettere le idee in relazione con le situazioni reali, con le forze operanti nella società; Gramsci che ai suoi occhi rappresentava l’esempio di come si dovessero considerare le idee in maniera inscindibile dalle forze che le avrebbero attuate. Il capo del partito comunista italiano era la personificazione di un concetto che Garin, per parte sua, poteva vivere solo nella sfera del pensiero. Del significato che Gramsci ebbe per Garin, e cioè appunto del suo essere espressione altamente morale di una filosofia che sa riconoscersi come forza reale e rigenerativa dai mali del mondo, parlano a lungo Sasso, Cesa e Santomassimo (L’impegno civile). Ma si mette in chiaro pure, da parte di Sasso, che la vicinanza di Garin a Gramsci non fece mai venire meno la distanza dall’ortodossia marxista e dalla dialettica hegeliana, così come non meno distante lo storico fiorentino rimase dall’idea gramsciana dell’intellettuale organico. Il compito principale dell’intellettuale fu sempre, per lui,
« “quello di sfidare i comuni modi di pensare” » e Sasso precisa che  «il suo interesse si dirigeva, infatti, bensì alla teoria che Gramsci aveva delineata … si dirigeva bensì all’idea degli intellettuali che, in coerenza con il “gruppo sociale” che li “crea”, e di cui sono espressione, “danno” a quello “omogeneità e consapevolezza”. Ma sopra tutto si dirigeva all’idea dell’intellettuale che, nei confronti della società alla quale appartiene, svolge una sorta di controcanto critico; e se è organico a quella, lo è nel segno della critica, non del consenso, nel segno della consapevolezza di quel che non va non solo nelle società che vivono i giorni grami della decadenza e della dissoluzione, ma anche in quelle che pur si siano volute e per le quali si sia combattuto»(pp. 336-37).
         Tornando ora al brano di Savorelli dal quale abbiamo preso le mosse, si presenta un’altra questione: il positivismo reinterpretato nel modo che si è detto veniva affiancato da Garin all’idealismo. Savorelli avverte: è chiaro che qui non abbiamo più a che fare con il positivismo storicamente inteso, né con una sua interpretazione, piuttosto con una riformulazione di alcuni motivi scaturiti dalla sua eredità e fatti propri da Garin, ovvero abbiamo a che fare con la concezione filosofica di Garin stesso, quella che sarebbe stata presentata in La filosofia come sapere storico solo qualche anno più tardi rispetto alle Cronache. L’idealismo, poi, di cui si parla è quello di Benedetto Croce. Ecco allora che, accomunando positivismo e idealismo e suggerendo l’idea di una concomitanza di intenti tra le due filosofie, Garin ci porta nel cuore di una questione importante, sulla quale non a caso quasi tutti gli autori del volume si sono pronunciati. E’ la questione del rapporto tra Garin e Croce.
         A questo riguardo, bisogna fare attenzione, però, a non lasciar scivolare le cose su un piano che non è il loro. Il fatto che Garin negli anni della sua gioventù vedesse Benedetto Croce, critico a volte sprezzante di Limentani o di De Sarlo, come un avversario; il fatto che, invece, all’epoca delle Cronache sentisse il grande intellettuale e filosofo, impegnato per la libertà e capace di passare dalla filosofia dello spirito allo storicismo assoluto, molto vicino alle sue preoccupazioni filosofiche e morali; il fatto, infine, che se lo ritrovasse in campo avverso quando, lui affiancato al movimento comunista, Croce era invece liberale; tutti questi fatti importanti non esauriscono la questione di quel rapporto; non solo, ma forse neanche la colgono. Dove invece quella questione deve essere indagata è proprio Garin a dirlo quando, nel passo delle Cronache citato, afferma l’esigenza di riconoscere un compito comune, uno spazio comune, una tangenza, tra il positivismo nel quale egli si riconosce e l’idealismo crociano. Non c’è dubbio, infatti, che se il punto di incontro tra le due filosofie è la storicità del pensiero, proprio da qui bisognerà muovere per intendere il rapporto che Garin ebbe con la filosofia di Benedetto Croce e per capire se davvero si sia trattato di un incontro o se, invece, la comunanza sia stata più di parole che di concetti. In altre parole, per rispondere alla domanda quale sia stato il rapporto di Garin con Croce è necessario mettere a punto cosa Garin abbia effettivamente inteso dire quando ha parlato di storicità del pensiero.
          Con ciò siamo al secondo dei punti indicati in apertura. Ma come dobbiamo intendere precisamente la storicità del pensiero di cui Garin parla? L’espressione rischia di essere generica e gli autori del volume sembrano interpretarla in modi non perfettamente coincidenti. Claudio Cesa, per esempio, fa cadere l’accento sul fatto che per Garin il pensiero, le idee, sarebbero strumenti di forze sociali che le producono e se ne servono per trasformare la realtà politica, economica, intellettuale, dell’epoca alla quale appartengono. In questo senso le idee sono storiche perché nascono nell’ambito dell’agire umano e di questo costituiscono momento saliente. Secondo Cesa, Garin guardò a Croce come al filosofo che in certo senso non era mai stato del tutto idealista e che, comunque, quell’idealismo aveva superato ricollegandosi, con la Filosofia della pratica, a Marx del quale riprendeva e svolgeva le istanze più positive. Dalla categoria dell’utile Croce sviluppò quella della vitalità la quale, sconvolgendo l’impianto dialettico della filosofia dello spirito, fece emergere con forza sul volto dello storicismo crociano non i tratti dell’idealismo e dello spirito assoluto, bensì quelli di una forza tutta umana fatta di carne e sangue, di sentimento ed emozioni, una forza primordiale la cui valenza concettuale sporgeva al di sopra delle altre forme dello spirito. Questo era il Croce ammirato da Garin, quello al quale, dice Cesa, egli aveva fatto un monumento nelle sue Cronache e storicità del pensiero qui sta a significare umanità, contingenza e soprattutto di alogicità. Era la filosofia più abissalmente distante da quella di Gentile, che era stata la riprova, nel suo sforzo immane di affermarsi come pura logica e nel fallimento che ne era conseguito, dell’impossibilità che effettivamente la filosofia potesse essere tale. Ora invece la ragione, nel senso stretto di razionalità logica, rimpiccoliva e lasciava il campo ad altro. Il pensiero che è storia non era il principio filosofico dell’incontrovertibilità, ma i diversi modi in cui l’uomo esprime la sua spiritualità: la letteratura, la scienza, le idee politiche, anche quelle filosofiche. Insomma, uno scenario concettuale nel quale era del tutto tramontata la stella del pensiero autonomo e autosufficiente, quella stella che Gentile da parte sua aveva invece cercato di far risplendere. Sugli scudi Croce, dunque, e distruttivo, invece, il giudizio di Garin su Gentile.  
         Non lontano da questo concetto della storicità del pensiero è anche la disamina di Borghero (Filosofia e storia della filosofia). Garin, osserva Borghero, rovescia i termini del rapporto filosofia-storia della filosofia, in modo tale che non è la storia della filosofia a venire dopo la filosofia ma, al contrario, è la filosofia che viene dopo: «A chi chiede una filosofia preliminare “senza la quale sarebbe impossibile fare storia della filosofia”, Garin risponde che “la filosofia dello storico della filosofia è, appunto, la storia della filosofia, o, meglio ancora, la storia: ossia una concezione per cui anche la filosofia –come tutto il mondo umano- è in divenire, e le affermazioni della filosofia sono molteplici, e tutte variamente solidali col processo dell’umanità”. I termini tradizionali del rapporto tra filosofia e storia della filosofia vengono rovesciati: “non la storia della filosofia dopo la filosofia, ma la filosofia dopo la storia della filosofia; o, più esattamente: la filosofia non si verifica nel “principio” accertato della “filosofia”, ma “nelle sue realizzazioni”, il cui significato va ricercato “non in un metro fissato a priori, ma nel loro operare in realizzazioni sempre nuove”. Soltanto in questo modo è difendibile la possibilità di una storia della filosofia, che non sia ridotta a cronaca, dossografia, erudizione, ovvero a una lettura “superficialmente storica”, “una filosofia ‘inferiore’ ” il cui unico scopo sarebbe di fornire il metro per un giudizio superiore a quello dello storico, pronunciato dal teoreta, semmai “è lo storico che rivela quello che è rimasto nascosto al pensatore, ai suoi contemporanei, amici, avversari, discepoli”. Della filosofia si può dare storia perché “ la filosofia non è disincarnata visione di eterni veri, ma formulazione di sistemi di idee, comprensione di problemi, elaborazione di vedute d’insieme, in indisgiungibile nesso col mobile variare di tutte le componenti della vita umana”, e, proprio perché “le idee sono saldate alle cose” e non si generano per partenogenesi, la filosofia ha spesso un’origine ‘impura’, non si radica in altre idee di filosofi, si presenta come antifilosofia: ciò impegna lo storico della filosofia non solo ad intendere la realtà umana come un “mobile processo” bensì anche ad avere una concezione plurale del filosofare”»(pp. 394-95). Il rovesciamento di filosofia e storia della filosofia è possibile e, anzi, è necessario proprio in forza dell’affermazione della storicità del pensiero. La filosofia non si verifica in un principio che sia posto al di fuori della storia, non ha la sua radice in un pensiero concepito come entità eterna o come eterno valore. Non c’è una razionalità al di fuori delle vicende umane. Se le produzioni umane sono caratterizzate da mutevolezza, divenire, incertezza, allora in questo panorama dobbiamo situare anche la filosofia che in nulla si distingue dalle altre produzioni. Anzi, è solo in questo orizzonte che la storia della filosofia si riscatta dalla condizione di “filosofia inferiore”, alla quale è condannata, invece, se si pensa ad essa come al rinvenimento in seconda battuta del principio logico che sovrasta le vicende storiche. Insomma, la filosofia non è altro che storia, esattamente come lo sono tutte le altre creazioni dell’umanità. Ma che cos’è storia? Su questo abbiamo la possibilità di andare un po’ più a fondo servendoci di quanto scrive Gennaro Sasso.
         Anche per Sasso è vero che Garin si accostò molto a Croce; anche secondo lui le Cronache pongono in posizione assolutamente centrale la filosofia idealistica. Tuttavia proprio là dove il suo pensiero sembrava maggiormente convergere e incontrarsi con quello del filosofo napoletano si poteva invece fissarne la distanza. In altre parole, proprio sulla questione della storicità del pensiero Garin sembrava accostarsi a Croce ma poi anche divergerne in modo saliente. Per spiegarlo, Sasso prende le mosse da un altro motivo che era comune ai due, ovvero quello della negazione dell’esistenza di un problema unico ed essenziale della filosofia. Il testo cui si riferisce è La filosofia come sapere storico del quale così scrive: « il punto è che la distruzione che, senza proclamarla, in queste pagine Garin eseguiva dell’idea che la filosofia avesse, come Pantaleo Carabellese scriveva e spesso ripeteva, un suo problema centrale, un suo problema interno che, sempre lo stesso, solo verbalmente variava nei sistemi con i quali si tentava di risolverlo e che alla luce di quello dovevano perciò essere giudicati, -il punto è che, nell’esercizio della storia della filosofia, questa “distruzione” produceva le sue conseguenze e importava un mutamento radicale. Era la filosofia, infatti, che, intesa nell’unità sottendente le differenze della sua espressione specifica, non c’era più. Al problema si sostituivano problemi, pensieri, esperienze determinate; che richiedevano di essere ricostruite con riferimento, non alla filosofia e al pensiero, ma alle concrete situazioni storiche all’interno delle quali erano insorte. Problemi, pensieri, esperienze che tanto più meritavano il riconoscimento della loro importanza quanto più chi li dibatteva e viveva fosse stato in grado di ricondurre nel loro ambito specifico la complessità del mondo e dei tempi. C’era senza dubbio, alla radice di questa tesi, a cui Garin però conferiva accenti di estremistico rigore, un tema crociano: la risoluzione del problema per eccellenza filosofico, quello dell’essere e del conoscere, nei problemi che di volta in volta avevano acceso l’interesse dei filosofi e stimolato il loro impegno a risolverli; e i problemi erano non solo quelli dell’essere e del conoscere, ma gli altri (politici, morali, economici) che la vita spingeva innanzi perché ricevessero soluzione e sistemazione. Al riguardo, deve tuttavia distinguersi. L’analogia con la tesi crociana non era infatti più che un’analogia, e debole per giunta; un’analogia che condurrebbe del tutto fuori strada se, dalla teoresi la si estendesse alla prassi storiografica; che non avrebbe invece potuto essere, nei due autori, più diversa. Quella di Croce fu, e non solo nel saggio su Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel o ne La filosofia di Giambattista Vico, ma sempre, e quale che fosse la questione che di volta in volta i testi considerati gli avessero posta, una storiografia fortemente teoretica, intesa a discriminare la parte viva nel momento in cui l’accento cadeva su quella morta, e volta a intendere la prima come intrinsecamente connotata in termini, anche se impliciti, di “filosofia dello spirito”, e perciò di verità. Il che significa che, anche nel rispetto teoretico, la sostituzione dei problemi al problema non riguardava se non la capacità di coglierli e individuarli dove la storiografia filosofica non avesse mostrata l’abitudine di andarli a cercare non, però, la sostanza della questione. Se la verità di un filosofema non da altro era garantita che dalla sua pertinenza al quadro della filosofia dello spirito; se la prevalenza della parte sul tutto era di volta in volta compensata dall’essere la parte, necessariamente, la sede concreta della totalità che le era implicita, a conseguirne era che a determinare la verità delle filosofie nelle parti in cui queste fossero riuscite ad adeguarla, era la verità, e che non in altro consisteva la storicità del pensiero se non nella prevalenza che un aspetto della verità avesse realizzata nei confronti di quel che fosse rimasto implicito. Al di là delle facili assonanze, la posizione di Garin era del tutto diversa. A esser messa da lui in questione era l’idea stessa della verità che, risolta e dissolta nella storia, poteva essere chiamata con quel nome solo se la si fosse intesa alla stregua di un criterio idoneo alla migliore comprensione del tempo entro il quale si era maturata e definita»(pp. 353-54). Precisa subito Sasso che Garin era perfettamente consapevole delle difficoltà implicite nella sua posizione: «Garin sapeva benissimo che la sua tesi implicava la riduzione della filosofia alla storia, nella quale era per conseguenza la prima a essere nettamente sacrificata alla seconda. Sapeva benissimo che quel suo concetto della filosofia come “sapere storico” avrebbe richiesto una più drastica e approfondita teorizzazione, in forza della quale il concetto fosse stato, non abbandonato, ma, come a lui sarebbe forse piaciuto, meglio “fondato”. Sapeva tuttavia anche che, se mai l’avesse perseguita fino in fondo, l’idea secondo cui il sapere storico richiedeva di essere sottoposta alla rigorosa procedura della fondazione lo avrebbe ricondotto nel gorgo delle difficoltà che, presenti nelle concezioni opposte alla sua, aveva cercato di evitare e di vincere. Gli era chiaro infatti che, presentato nella forma di un’antitesi avente a un capo ciò che è eterno e a un altro ciò che è transeunte, a un capo l’incontrovertibile verità, a un altro il suo essere storico e perciò controvertibile, il problema della conciliazione di questi due assunti era destinato a rivelarsi insolubile. Garin era ben consapevole che non si fa storia di ciò che per sé non ha storia perché è la verità; e che, in tanto del pensiero può farsi storia, in quanto questo sia in se stesso storico. Storico e perciò non vero nel segno dell’incontrovertibile. Ma la questione che a questo punto insorgeva e che, sebbene non si vada lontano dal vero supponendo che gli fosse presente, egli tuttavia non affrontò, riguardava l’ “in sé” di quella storicità; che non avrebbe mai potuto essere altro che incontrovertibile, e quindi vero, pena la perdita del “sé” per il quale si assumeva che la verità della storia fosse vera ma non nel senso dell’incontrovertibile verità. Un’aporia pungente, che, sebbene non ne fosse, come si è detto, inconsapevole, evitò tuttavia di affrontare in questa forma specifica, e di discuterla»(pp. 355-56).
         La lunga citazione del saggio di Sasso ci consente di osservare più cose. Innanzitutto, che Garin era perfettamente consapevole che l’affermazione del pensiero o della filosofia come storia non poteva essere esentata dalla prova; era consapevole che non sarebbe stato sufficiente riconoscere che anche quella affermazione si sostanziava di storia, ovvero piegare alla storicità anche ciò che nell’affermazione pure non poteva non risultare irriducibile alla storia non era ancora sufficiente a fondare l’asserto della storicità del pensiero, perché anche questa ulteriore riduzione segnava un qualche dislivello, un “punto di vista”, che non poteva essere del tutto equiparato alla storia tout court. In secondo luogo, che secondo Sasso Garin aveva individuato, nell’aporia nella quale pure si dibatteva, il punto profondo della questione, e cioè che non può esserci storia di ciò che è eterno, che tra eterno e transeunte non è possibile conciliazione. Garin vedeva nella pretesa dei suoi oppositori di coniugare i due termini l’impossibilità teorica e pensava che del pensiero, invece, può farsi storia perché esso non è vero, almeno non lo è nel senso dell’incontrovertibilità. Questo aspetto del problema è da sottolineare con forza perché, se le cose stessero così come dice Sasso, allora dovremmo concludere che quella di Garin è, nella sostanza, una posizione scettica o, come più cautamente sembra ritenere Sasso, una situazione di indecisione di fronte all’alternativa tra scetticismo e separazione di storia e verità (posizione che, però, è fin qui solo di Sasso e, almeno esplicitamente, non appartenente a Garin). Il punto è importante, dicevamo, perché proprio questa divaricazione segna la differenza tra Garin e Croce, ma allo stesso tempo indica il luogo teorico al quale sono pervenuti sia filosofi di matrice idealistica come Croce e Sasso, sia filosofi antiidealisti come Garin. Indica cioè che quel luogo teorico costituisce un orizzonte comune e che la vera differenza, se lasciamo da parte aspetti più appariscenti ma anche più identificabili come legati al temperamento e alla personalità dei pensatori, non può che essere delineata come una risposta diversa allo stesso problema.
Ma c’è di più. L’analisi di Sasso si spinge fino a far intravedere come i motivi teorici impliciti nella concezione gariniana della filosofia come storia siano fermento teorico nella riflessione dello stesso Sasso, il quale infatti conclude: «In realtà, invece di produrre variazioni sul tema della verità, che sempre è storica, e dalla storia mai può evitare di essere condizionata, Garin avrebbe dovuto richiamare l’attenzione su ciò che nel suo discorso rendeva impossibile il conseguimento della tesi che intendeva sostenere. Per dare coerenza all’esigenza da cui potentemente era mosso, con perentoria nettezza avrebbe dovuto dire che fra verità e storia non si dà alcun nesso, o, se si preferisce, alcun rapporto. Avrebbe dovuto spiegare che, se, viceversa, si assume il concetto della relazione, e all’interno di questa si pretende che si diano, come diverse, la verità e la storia, di necessità deve constatarsi che, in quanto nella relazione che costituiscono quelle non possono stare se non come identiche, dunque si dà l’identità, non la relazione. L’identità; e quindi non la verità come diversa dalla storia, non la storia come diversa dalla verità, ma l’identità, soltanto l’identità. Se avesse battuto con decisione questa via, Garin avrebbe, certo, dovuto ammettere che della verità non si dà storia; che, intesa come storia della verità, la storia della filosofia non è se non la filosofia assunta come la verità e il peculiare dispiegamento del suo senso. Ma, deposte, dopo averne rigorizzata la problematicità, le illusioni della trascendentalità e delle relazioni costruite con il suo criterio, se, per contro, avesse tenuto fermo al concetto che tra verità e storia non si dà rapporto o passaggio, avrebbe forse visto dispiegarsi di fronte a sé il ricco e inesauribile universo abitato, non dalla verità, non dal pensiero, ma dai pensieri, dalle sperimentazioni, dai tentativi che gli uomini mettono in atto per costruirlo e dare a esso un senso: insomma, il mondo della storia al quale egli sopra ogni altra cosa teneva, e all’interno del quale si muoveva con particolare maestria»(p. 358). Parole con le quali Sasso amplia il ragionamento di Garin portandolo in una direzione verso la quale lo storico fiorentino non aveva spinto mai i suoi passi; quindi mostra quale dovrebbe essere la scelta coerente per chi avesse, come Garin ha fatto, ben compreso l’impossibilità di coniugare storia ed eternità e questa scelta, al lettore che conosca il lavoro filosofico di Sasso, appare del tutto coincidente con la sua.
Se il ragionamento svolto sulla scorta di quello che sembra essere il problema centrale della riflessione filosofica di Garin ci ha condotto fin qui, tuttavia non solo questa questione ma anche altri temi, rilevanti soprattutto sotto il profilo storico e politico, il lettore potrà trovare nell’articolo di Gianpasquale Santomassimo dedicato all’impegno civile di Garin; in quello di Gabriele Turi (Intellettuali e fascismo nell’esperienza e nella riflessione di Eugenio Garin) dedicato al rapporto tra intellettuali e fascismo; oppure in quello di Saverio Ricci, dedicato a Garin e Cassirer (Garin e Cassirer); infine in alcune lettere pubblicate da Giovanni Mastroianni (Eugenio Garin fra storiografia, filosofia e politica in alcune lettere inedite).
E’ con l’intervento di Massimo Ferrari (Filosofia e scienze nel Novecento. Eugenio Garin e la ‘distruzione della ragione’) che vogliamo però concludere la breve rassegna, perché questo saggio aggiunge ancora qualcosa riguardo alle cose fin qui dette. Infatti, ragionando sull’operato di Garin dagli anni Settanta in poi, Ferrari lo descrive imperniato su un programma: «Nel corso degli anni Settanta la crisi della società italiana induceva d’altra parte Garin –già lo si è sottolineato- a guardare con un certo pessimismo a quanto avveniva nella nostra cultura, lamentando la sconfitta dei progetti di rinnovamento postbellici, il venir meno del confronto con il passato, del senso della storicità e del “senso stesso dell’umano”. Parole, queste, affidate a un testo del 1978, in cui la denuncia di “un antiumanesimo e un antistoricismo generici e di maniera” si salda drammaticamente alla preoccupazione ormai non più arginabile per l’assenza di un impegno non retorico in difesa della cultura e delle istituzioni, “alla cui dissoluzione si assiste con profonda amarezza per il vuoto assoluto di progetti concreti di chi vi dà mano”. E’ in questo contesto che va collocato il programma di lavoro avviato da Garin (anche se lasciato in larga parte incompiuto) di ritessere le fila di una storia della ragione e della sua crisi che muovesse dalle vicende europee ‘tra due secoli’, riposizionando, per così dire, la stessa filosofia italiana in un panorama più ampio, che potesse dar conto di quanto era avvenuto anche in Italia all’epoca della ‘rinascita dell’idealismo’ e in specie dell’avvio della ‘Filosofia dello Spirito’ crociana»(pp. 408-9). Il programma di Garin di questi anni era dunque quello di capire la crisi della ragione e sembra a Ferrari che esso segni «un elemento di cesura nei confronti del suo lavoro storiografico precedente»(p. 410). In quell’epoca Garin rivolse la sua attenzione alle filosofie della vita(James, Bergson), perché le vedeva come l’origine degli equivoci che alimentarono l’irrazionalismo europeo; alla filosofia della scienza (Carnap, Wittgenstein, Russel), perché capace di fissare i limiti delle pretese della filosofia e di smentire la sua vocazione a trattare dei massimi problemi; ad Einstein e all’idea di un apriori assoluto ma regolativo; infine, e soprattutto, a Dilthey e al suo tentativo di arricchire il concetto di ragione riprendendo le mosse da Kant e ampliando il disegno iniziato dal filosofo di Koenigsberg.
Prendendo in esame quegli anni, l’intento di Ferrari è di valorizzare una fase della vita intellettuale di Garin che metta in luce l’importanza da lui sempre riconosciuta al mondo della scienza. Questa sottolineatura sembra avere una funzione di contrappeso rispetto alla lettura che abbiamo seguito e che ha visto Garin orientato soprattutto al confronto con Croce e con Gramsci. Non a caso lo stesso Ferrari parla di una «cesura» rispetto al Garin delle Cronache. Ora è comprensibile che in un contesto come quello offerto da Garin e il Novecento ci si senta un po’ chiamati a fare “il gioco delle parti”, cioè a far valere innanzitutto i motivi e le questioni che ci sono particolarmente cari e che magari sono, invece, trascurati da altri. Ma se considerando il Garin di cui discute Ferrari lo si pensasse contrapposto a quello di Cesa o di Sasso, forse si sbaglierebbe. Infatti esso non contrasta davvero con quello fin qui visto. Quell’estendersi dell’orizzonte a diverse filosofie europee non contraddice il motivo profondo della sua ricerca precedente. Sia pure con accenti diversi, quella che Garin ha indagato negli anni Cinquanta come negli anni Settanta è pur sempre una ragione libera da ogni pretesa assolutistica, una ragione storica secondo le valenze che abbiamo cercato di capire, una ragione allo stesso tempo umana, e cioè relativa, ma non scettica. Rivolgere l’ago della bussola verso una filosofia o verso un’altra ha naturalmente la sua importanza. Ma più significativo è il sentimento di fondo del nostro filosofo, quello che lo portava a sostare in prossimità di incroci come quello di idealismo e antiidealismo, di teoresi e pensiero storico, filosofia come indagine del pensiero e filosofia come prassi trasformatrice, nodi cruciali che mettevano in luce, qualunque fosse la scelta da lui operata, tutte le implicazioni che in essa erano contenute. Era forte in Garin il senso di crisi della ragione, e Ferrari ha fatto bene a metterlo in risalto. Ma era forte da sempre. Crisi della ragione e pensiero storico non erano meno intrecciati quando Garin si misurava con Croce di quanto lo fossero quando rifletteva sulla filosofia della scienza. Era una crisi, sia prima che dopo, non soltanto di paradigmi, di schemi, di sistemi astratti, ma crisi di fiducia in un ordine immutabile delle cose, era crisi sentita come coinvolgente l’essenza e rivolta a cercare nell’esistenza un nuovo approdo. L’osservazione di Ciliberto secondo il quale nell’atteggiamento di Garin si potrebbe cogliere un tratto esistenzialistico non va, allora, lontano dal vero e forse coglie anche una particolarità della nostra cultura filosofica, che esistenzialisticamente, almeno in alcuni casi, proprio interrogandosi sulla storia e sulla funzione dell’individuo, sulla storia e sulla presenza dell’assoluto, ha coniugato secondo modalità peculiari quel tema dell’esistenza che tedeschi e francesi hanno ritenuto di loro esclusivo appannaggio.



PUBBLICATO IL : 23-07-2010

 

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