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Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali , Laterza, 2009
di Francesco Saverio Trincia

Intendo svolgere qualche riflessione sull’ambivalenza dell’intellettuale di Alberto Asor Rosa. Cercherò di chiarire quel che intendo con “ambivalenza”. Avverto anzitutto che ogni superficialità di lettura, di commento, di  riflessione, di valutazione, ogni fretta di chiudere e di concludere, ogni pretesa di aver capito  devono essere banditi in chi si proponga di cogliere a fondo il senso del saggio. Mi pare che l’atteggiamento corretto sia quello di chi riconosce in questo libro la prima autentica sfida conoscitiva sul tema-chiave della relazione tra politica progressista e cultura nella storia recente, e oggi sostanzialmente conclusa, del nostro paese. E’ molto importante definire la collocazione al tempo stesso interna alla storia e alla questione stessa degli intellettuali – una storia e una questione nelle quali si è in certo senso costretti a riconoscere un profondo ed originario coinvolgimento dell’autore come del lettore  -  ma anche fino a un certo punto esterna e per questo critica rispetto ad esse, come se di quel coinvolgimento si avvertisse oggi al tempo stesso la necessità storico-destinale passata, da un lato, e dall’altro lato, l’odierna insostenibilità. Ossia, per esprimerci in maniera chiara, non solo il radicale esaurimento, ma la sottile, in gran parte inesplicitata dubbiosità circa la piena positività di un ormai passato rapporto tra politica e cultura, la cui rovina attuale autorizza ed anzi impone una presa di distanza, un dire, “c’ero, sono stato forse anche io  un intellettuale italiano, ma rivendico oggi una mia distanza già di allora da quel che pure ero”. Il libro di Alberto Asor Rosa mette in scena, ed offre al lettore  che non può non esserne partecipe, una situazione complessa, ma perfettamente esibita. La si potrebbe definire come la rappresentazione di uno svincolamento ormai maturo, ma drammaticamente difficile e retrospettivamente inquietante, dalla condizione storica dell’intellettuale italiano novecentesco che sfocia nella figura più determinata dell’intellettuale impegnato nella cultura-politica della sinistra.
Per questo motivo, nell’accingersi a raccogliere la sfida e a pensare insieme ad Alberto Asor Rosa ad una storia comune senza pretendere di fare quel che egli con grande saggezza  non ha fatto, tentare di tirarsene fuori per realizzare una conoscenza presuntamente obiettiva, ci si deve piuttosto impegnare a leggere e a rileggere, e anche a far interagire le reiterate letture di un testo apparentemente semplice con tutto quello che sul tema degli intellettuali italiani (della loro storia, della loro funzione, della loro fisionomia sociologica) si è venuto depositando nell’ultimo mezzo secolo circa nella coscienza politica e  intellettuale di chiunque sia stato ‘militantemente’ partecipe, grazie anche alle proprie competenze di sapere, del destino civile  del nostro paese – e che abbia scelto di schierarsi sul fronte che definiremo ‘progressista’. Questa prima osservazione ci conduce nel cuore di quella che abbiamo chiamato l’”ambivalenza” dell’intellettuale quale appare in questo libro. Nel nostro paese almeno, la riflessione sugli intellettuali, e sul ruolo da loro svolto nella storia contemporanea, avviene, lo si voglia o no, dall’interno di un orizzonte dominato dalla soggettiva ‘intellettualità’ di chi riflette, indaga, giudica. Che lo si voglia o no, la riflessione sugli intellettuali è segnata da gradi e da forme diverse di un comune coinvolgimento autoreferenziale, come se si percepisse che comunque de nobis fabula narratur e che è in certo senso sia tanto impossibile quanto potenzialmente falsificante tentare di prescindere, nel parlare di ‘loro’ intellettuali, dal  ‘noi’ che lo siamo stati  e nella figura degli intellettuali abbiamo collocato una componente non piccola della nostra identità. Per dire la cosa in altre parole, la riflessione sugli intellettuali, interrogati significativamente e necessariamente  (nel senso che non si poteva fare altrimenti) a partire dal loro silenzio odierno, è al tempo stesso culturale, storica, politica e insieme autobiografica, se non, più in generale, psicologica.
L’intervista di Alberto Asor Rosa è una testimonianza esemplare di questa situazione, che non ha eguali nello storia di altri paesi occidentali. E’ del tutto fuorviante considerare ovvio e pacificamente comprensibile il rapporto tra politica e cultura che si è realizzato nel nostro paese e che ha definito per molti anni la fisionomia essenziale della politica della sinistra che oggi definiremmo trasformatrice, ma che è stata per molti aspetti rivoluzionaria. E’ fuorviante  parlarne come di un fenomeno ‘oggettivo’, isolabile dalla costruzione ideologica di origine italo-marxista che gli ha dato vita, che lo ha fatto essere, fino al punto che la consunzione di quella costruzione ideologica si è risolta nella scomparsa di quella evanescente obiettività. Di tale storicamente evanescente materia, di tale pur nobile, pur progressiva mascheratura ideologica è impastato l’intellettuale progressista italiano, del quale nel libro si constata la scomparsa sullo sfondo dell’incombente catastrofe autoritaria della democrazia italiana.  Non è questo il luogo neanche per accennarlo, ma la cornice di riferimento che stiamo costruendo per collocarvi qualche osservazione non potrebbe affatto coerentemente racchiudere, ad esempio,  la storia dell’engagement francese del primo dopoguerra. Basti rilevare la centralità della figura di Jean-Paul Sartre ed il modo peculiarissimo in cui la sua  stessa filosofia finisce per riassumere e riassorbire in sé la realtà sociale dell’intellettualità francese impegnata a sinistra, per vedere bene che questo non è stato il destino degli intellettuali italiani del secondo dopoguerra. Essi sono stati al tempo stesso più storicamente e politicamente reali degli intellettuali engagés francesi di cui non è esagerato dire che sono nati come proiezioni della filosofia sartriana. L’autobiografia dell’intellettuale francese engagé coincide simbolicamente con la biografia di Sartre , e di coloro che nel rapporto con lui e sempre operando sul piano della trasfigurazione filosofica o letteraria del proprio ruolo sociale, hanno interagito, da Albert Camus a  Maurice Merleau-Ponty. Solo in Italia si è prodotto un rapporto in certo senso paritario, non trasfigurato, non tradotto in cultura,  tra sapere, cultura, politica e impegno trasformativo del paese, che ha letteralmente plasmato generazioni di persone che si sono riconosciute nella figura dell’intellettuale, e che hanno consapevolmente e anche orgogliosamente rivendicato la propria continuità di figure sociali rispetto alla fase del nostro Risorgimento, e prima ancora alla fase dell’illuminismo italiano, visto da Francesco De Sanctis come il momento della rinascita dell’”uomo nuovo” destinato a far sbocciare l’uomo risorgimentale che egli stesso sapeva e voleva essere. Per questo motivo, che Asor Rosa collega, sia nell’intervista sia nella Storia europea della letteratura italiana, al ruolo di supplenza nell’edificazione dell’unità nazionale che gli intellettuali si sono attribuita – in base al modello tipicamente ideologico  dell’autoreferenzialità, ossia della costruzione di una precisa   fisionomia di attori storici e politici  da parte di coloro che  in questo stesso atto si legittimavano  ad agire come figure dotate della fisionomia storico-culturale che essi si cucivano addosso in virtù dell’autoinvestituta fornita dal loro sapere  -  la maschera sociale  dell’intellettuale è  una costruzione ideologica. Figure sociali gli intellettuali italiani a partire almeno dalla seconda metà del secolo scorso lo sono stati solo in quanto figure ideologiche, costruite da coloro stessi  che in questo modo si candidavano a diventare e  diventavano degli intellettuali. Dire che la figura sociale dell’intellettuale è sostanziata di ideologia significa identificare il fenomeno per cui  coloro che si definiranno infine  “intellettuali” credono nell’esito della costruzione culturale che edifica la loro identità, ed agiscono nella realtà storica sulla base di questa credenza. Essi agiscono sulla base di ciò che hanno culturalmente  deciso di essere.
Utilizziamo il termine  “ideologia” in questo caso nel senso positivo che esso ha nel marxismo idealistico ma anche leninistico  di Antonio Gramsci , vera fucina dell’”intellettuale”, ma al prezzo del rovesciamento del marxismo di Marx , feroce critico dell’ideologia, come è noto. La circostanza essenziale che l’autocostruzione ideologica dell’intellettuale producesse figure storiche reali, che hanno segnato in maniera determinante la vita del paese, fino almeno al momento in cui hanno cominciato a tacere (all’incirca negli anni Ottanta del secolo scorso, come Asor Rosa racconta in maniera convincente), non cancella affatto il fatto che si trattasse di figure storiche integralmente basate sull’autoattribuizione “ideologica” della fisionomia dell’intellettuale, ossia  di colui che non solo non  si limita ad un uso privato o accademico del proprio sapere, ma ritiene che il proprio sapere interpreti e sostenga il movimento della storia e sia dunque intrinsecamente storico-politico. Modello originario ed autentico, prima della deformazione gramsciana, di tale figura è il Marx del Lineamenti fondamentali dell’economia politica che vedeva se stesso come l’erede degli interpreti critici del capitalismo nascente, opposti a coloro che, come i filosofi contrattualisti “profeti del diciottesimo secolo”, e gli economisti volgarmente apologetici, deformavano ideologicamente la realtà economica e sociale capitalistica per occultarne la criticità intrinseca.  Marx ha dunque fornito alla figura originaria dell’intellettuale rivoluzionario che egli stesso incarnava quell’intrinseco incardinamento non nel progetto di un partito, ma nella realtà e verità autentiche del capitalismo, colto nella sua caratteristica di generatore del “movimento reale” che conduce alla sua crisi.  In Antonio Gramsci questa figura  si impoverisce e anzi si rovescia  nella  edificazione del tipo sociale dell’intellettuale organicamente collegato – attraverso il riferimento al partito – al programma storico-politico dell’instaurazione di un nuovo ordine. In lui, e solo in lui,  l’intellettuale diviene positivamente ideologico, in quanto prodotto di una costruzione culturale. In lui il rapporto tra politica e cultura si presenta come il cuore di una prassi il cui soggetto sono gli intellettuali, veri e propri ‘prodotti’ dell’italo-marxismo gramsciano. L’interprete marxiano del capitalismo, in certo senso l’espressione intellettuale della interna criticità del capitalismo, colui che svela le mistificazioni degli apologeti della società borghese , scompare così dietro la sua fisionomia positivamente ideologica. E’ questa la fisionomia dell’intellettuale progressista italiano da cui, si può rilevare, Alberto Asor Rosa ha preso le distanze nel lontano ma ‘fatale’ Scrittori e popolo, veicolo per molti allora giovani di dubbi salutari verso il gramscismo e, indirettamente, della ripresa di contatto con le categorie del Capitale.
         Ribadiamo il punto: che l’ideologia sia diventata (in Italia ma non in Francia, come si è detto),  grazie agli intellettuali prodotti dal gramscismo culturale  guidato dal Partito Comunista, una potente forza storica di cui oggi, nell’epoca della non solo virtuale distruzione berlusconiana della democrazia, si ‘sente’ l’assordante silenzio, non toglie che sia divenuta storia, che si sia fatta protagonista storica,  un’autocostruzione ideologica. Si tratta di un punto molto rilevante che le pagine delle risposte di Asor Rosa all’intervistatrice consentono per la prima volta di cogliere – a patto, come si diceva, che le si legga con l’attenzione che si deve a chi ha messo in rilievo un dato che è rimasto finora nascosto nella coscienza culturale del paese. Se  infatti giudichiamo il ruolo centrale degli intellettuali nei decenni centrali del secolo appena trascorso, e lo facciamo guidati da questo libro, non dimenticando il complesso, produttivo intreccio di politica e cultura che lo ha caratterizzato nonostante il sordo brontolio del tuono che già allora segnalava una dissoluzione possibile, ma soprattutto ci collochiamo dal punto di osservazione costituito dal  “silenzio” totale attuale, comprendiamo bene che tanto l’assordante presenza passata quanto lo sbalorditivo silenzio attuale sono il frutto della natura di costruzione  ideologica che è propria degli intellettuali italiani. Questo elemento ha generato e garantito la loro centralità nella storia del paese, orientata e spinta nella direzione del mutamento civile e sociale, ma questo stesso elemento genera oggi una crisi verticale, dove v’è da chiedersi se mai un “silenzio”, e quale silenzio, possa rimproverarsi agli intellettuali, nell’atto in cui se ne dichiara la fine storica, reale, la totale insussistenza sociale, quella che chiameremmo la caduta della maschera..
La potenza dell’ideologia ha ‘fatto’ gli intellettuali ed ha plasmato così la storia del paese. Ma questa potenza nascondeva la debolezza di una figura storica la cui unica consistenza è di tipo ideologico. Ogni meraviglia di fronte alla scomparsa degli intellettuali cade quando, dopo averne elencato le cause storiche (dalla crisi dell’idea stessa  di socialismo, all’avvento della “civiltà montante”, fino al degrado di un paese berlusconizzato) si comprende che debolezza e dissolvibilità di una figura sociale edificata con materiale ideologico costituiscono l’altra faccia, già pronta, già negativamente attiva, della potenza storica che essa ha purtuttavia  mostrato. Ho parlato di “ambivalenza” dell’intellettuale di cui le pagine asorrosiane raccontano la fine non recuperabile. Ora forse siamo in grado di capire che cosa esattamente si percepisca come risultato conoscitivo di queste pagine, quando di parla appunto di “ambivalenza”. E’ chiaro infatti, se l’analisi in chiave ideologica che abbiamo presentato è corretta, che per un verso, quando ci si riferisce alla storia degli intellettuali italiani del secondo Novecento, si parla della loro realtà di attori storici e nel far ciò si mette in secondo piano la genesi tutta ideologica di tale realtà storica. Si osserva la situazione, per così dire  dall’interno della gabbia ideologica, attraverso il filtro deformante che essa offre, o forse offriva. In questo modo la si neutralizza.  Per quanto grandi siano i dubbi sui risultati storici che gli intellettuali italiani in qualche modo legati alle forze progressive hanno raggiunto, per quanto aleggi  la percezione di una virtuale debolezza nelle realizzazioni storiche di soggetti al tempo stesso culturali e politici, è difficile  sottrarsi al giudizio assiologicamente positivo dato da Asor Rosa sulla fase storica in cui tali soggetti erano attivi. Non poco della civiltà del paese è dovuta ai suoi intellettuali. Quando invece l’analisi si sposta su tempi più recenti e giunge fino al “silenzio” di oggi, il vuoto che si apre su di una società senza gli intellettuali e dunque senza le forze che comunque hanno lavorato in senso progressivo insieme al movimento operaio viene avvertito e viene anche fortemente lamentato, non senza che si affacci anche una qualche nostalgia del passato. Ma   in questo atteggiamento, che sconta la crisi radicale dello schema culturale che ha prodotto gli intellettuali, si fa prepotente, anche se non del tutto esplicita, la consapevolezza delle destinale debolezza di una figura impastata di ideologia. L’ambivalenza del giudizio che accompagna anche questo sentimento nasce dalla circostanza che nella fase ‘eroica’ risulta meno evidente di che cosa fossero fatti gli intellettuali, ossia, per dirlo chiaramente, quanto fragile  fosse il tessuto di figure edificate attraverso il meccanismo culturale dell’autoreferenziale plasmazione ideologica. Risulta meno chiaro, vogliamo dire, quanto costitutivamente deboli fossero fin dall’inizio gli intellettuali, quanto illusoriamente idealistico fosse fondare le speranze della edificazione di un paese più giusto sulla relazione tra politica e cultura e sugli intellettuali che le davano corpo. Interamente culturale, infatti, risulta se osservato dall’oggi, lo schema della connessione progressiva  tra politica e cultura. Se accade che tale cultura mostri improvvisamente i suoi limiti, se, si vuole dire, entrambi i termini del rapporto entrano in una fase di scuotimento e di crisi, se, insomma, la solidità di quel nesso risulta messa in crisi dalla storia reale e insieme dalla riflessione critica, tutto l’edificio rovina al suolo. La figura spettrale dell’intellettuale italiano e la sua radicale scomparsa appaiono allora come i simboli perfetti del deserto di una cultura affidatasi a fantasmi.
L’oscillazione o l’ambivalenza del giudizio sugli intellettuali costituisce il tratto centrale del libro asorrosiano. E’ esattamente questo tratto che va colto dietro le righe se questo libro vuole essere apprezzato per quel che non dice, ma sprona a pensare, oltre che per quel che dice. Tale stare dentro una storia che si sa finita, con il dubbio che sia stata in certo senso ‘tradita’ la comprensione,  chiara fin dall’inizio, del ruolo creativo che unicamente spetta all’individuo borghese e non agli “intellettuali” (ciò che Asor Rosa torna a ribadire opportunamente oggi, con minore enfasi sul “borghese”, ovviamente), ed, insieme, tale stare fuori da quella storia che viene decodificata solo grazie alla distanza che si ristabilisce rispetto ad un coinvolgimento nella ‘intellettualità’ avvertito tuttavia come destinale: è questo l’aspetto del libro che dà da pensare.
Vi si coglie infatti anche una specie  di tragica consapevolezza della difficoltà di tirarsi fuori, come il famoso barone tentava invano di fare con i propri capelli, dalle condizioni storiche e dal tessuto culturale che si impongono comunque a chi voglia agire. Che si impongono, si vuol dire, anche a colui che non ha voluto essere, e forse non è mai stato, un “intellettuale” e che, soprattutto  ha combattuto contro l’ideologia degli intellettuali e contro gli intellettuali come ideologia. Accade come se Asor Rosa finisse per dar corpo così ad una  storia del proprio ‘sacrificio’: di quel sacrificio che investe persino una parte rilevante delle proprie convinzione teoriche, a fronte dell’impegno di ‘fare’, oggi ancor più di ieri, per il proprio infelice paese. Si supponga che nell’avanzare questa osservazione si colga un punto rilevante. Sarebbe in questo caso un gesto di gratuita ingenerosità e di disprezzo verso la cruda, inappellabile, “brutalità delle cose” storiche entro cui si vive, rilevare a proposito dell’ambivalenza di cui si è parlato che se uno dei lati del giudizio ambivalente ospita una traccia di nostalgia, di che cosa esattamente, nel deserto di oggi è legittimo provare nostalgia, dato che tutto quel che doveva accadere, della vicenda degli intellettuali progressisti italiani, era in certo senso scritto nel loro stesso atto di nascita?



PUBBLICATO IL : 26-01-2010

 

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