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Marco Balzano, I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo , Marsilio, 2008
di Massimiliano Biscuso

La ricerca di Balzano intende contribuire a ricostruire i tratti, per nulla lineari né nel loro sviluppo cronologico né nella loro intima coerenza logica, di uno degli aspetti più caratteristici e decisivi della leopardiana «filosofia della società», intesa dall’autore come «il più ampio capitolo della […] filosofia della natura» (p. 10): la riflessione sui primitivi e i selvaggi (termini niente affatto sinonimi, come apprenderemo tra breve) condotta alla luce delle conoscenze delle civiltà amerindie, che Leopardi si formò grazie alla lettura di opere storiche, etnologiche, antropologiche e genericamente filosofiche. La scrupolosa ricostruzione delle fonti – che è uno dei principali meriti del lavoro di Balzano e una delle caratteristiche della nuova critica leopardiana, attenta a non ridurre la riflessione filosofica del Recanatese alla dimensione genericamente illuministica e restia a dissolverne la specificità nelle dinamiche indeterminate e decontestualizzate del «nichilismo occidentale» o del «pensiero tragico» – è messa al servizio del compito di ricostruire non solo e non tanto l’immagine che Leopardi ebbe del primitivo e del selvaggio, e delle civiltà precolombiane o native americane, quanto la polarità concettuale, decisiva per la filosofia della società, “prima natura-seconda natura”, “naturale-sociale”, insomma: “natura-storia”. Una polarità sottoposta a fortissima tensione, in quanto opposte esigenze spingono Leopardi tanto a mantenere la polarità, assegnando un valore positivo al primo polo (i primitivi, i Californiani) e un valore negativo al secondo (selvaggi, antichi e moderni sono tutti indistintamente frutto di una “caduta” rispetto alla perfezione del primitivo), quanto a dissolvere la polarità negando l’esistenza stessa del primo polo, e ricostruendo una serie di nuove opposizioni polari all’interno del secondo membro dell’opposizione, cioè della seconda natura, della storia (barbaro-civile, antico-moderno, società larga-società stretta ecc.). In questo modo la possibilità di riscatto si giocherà tutta ed esclusivamente nella storia o, meglio, nell’apertura utopica di una storia del tutto altra rispetto a quella effettivamente costruita fino ad ora dagli uomini.

Gran parte del lavoro è dedicata allo Zibaldone (capp. 2-7), ma non manca una breve ricognizione sulle opere giovanili (cap. 1) e dense pagine dedicate alle Operette morali (capp. 8-9), mentre appare forse meno approfondita di quanto meriterebbe l’attenzione dedicata al «selvaggio antimetafisico» dei Paralipomeni (cap. 10).
Le prime occorrenze del tema nello Zibaldone (ad es. Zib. 298) mostrano una decisa influenza del Secondo discorso di Rousseau: mentre nella storia si rincorrono ciclicamente barbarie e civiltà, la prima evolvendosi nella seconda e la seconda giunta all’eccesso precipitando nella prima, l’umanità selvaggia e primitiva (ancora i due termini non si distinguono) rimane estranea alla storia, vivendo in una condizione anteriore alla necessità, all’occupazione e al dolore; tra il selvaggio e l’essere sociale c’è «una vera e propria differenza ontologica» (p. 31) – la differenza appunto che corre tra natura e storia.
Tuttavia già nel 1821, anno di intensa ricerca che si estende per quasi duemila pagine zibaldoniche, i selvaggi vengono collocati, nella lunga nota di inizio aprile (Zib. 872-911), in bilico tra società e non società: «La fase di un selvaggio abitatore di un irraggiungibile mondo integralmente incontaminato non è durata che brevissimo tempo» (p. 43). Primitivo e selvaggio cominciano a dividersi: «Il selvaggio è […] un abitante del mondo presente, anche se le sue dimore si preciseranno solo in seguito […] Il primitivo, invece, è anzi tutto un’idea, un paradigma di confronto sempre positivo, che cioè non subisce nel corso degli anni nessuna degradazione e corruzione di significato» (p. 49). Una divisione che si radicalizzerà nel corso degli anni, perché il primitivo, essendo estraneo alla storia, perde la possibilità di essere fattualmente identificato, mentre il selvaggio sarà progressivamente sempre più coinvolto nella vicenda storica dell’uomo, segnata dalla corruzione dilagante della società (pp. 50-51). Si faccia attenzione, a questo proposito, alle annotazioni dei primi di settembre (Zib. 1601-5), in cui per la prima volta esplicitamente si afferma che i selvaggi hanno società: in esse il pensiero leopardiano «si impiglia, fin d’ora, in una delineazione ancipite dell’uomo: egli è sia l’essere più capace di assuefarsi rispetto agli altri, sia, nello stesso tempo, il vivente meno atto alla società, che è assuefazione», il «più conformabile» e insieme il «meno sociale di tutti»; un’affermazione contraddittoria – Balzano scrive con formula un po’ contorta: «non è per nulla sillogistico» –, ma comprensibile alla luce di un’esigenza teorica e, aggiungerei, soprattutto sentimentale: «l’amore di Leopardi per la natura [che] sarà difeso sino all’estremo delle forze, anche a scapito della linearità dell’evoluzione del pensiero» (pp. 54-55).
È alla fine del 1821 che Leopardi legge la prima importante opera sull’America: la Historia de la conquista de Mexico di Antonio Solis (1684), un’opera che contribuirà in maniera decisiva a determinare l’immagine del selvaggio. Le informazioni sull’organizzazione sociale, sulla religione e i sacrifici rituali delle antiche popolazioni messicane, chiariranno a Leopardi che «i selvaggi non sono altro da noi […] ma si trovano semplicemente più indietro nella strada della civilizzazione, rivelando pratiche sociali proprie di uno stato umano un tempo conosciuto anche dagli antichi» (p. 72). Una parziale eccezione a questa evoluzione del pensiero leopardiano (o, meglio, una testimonianza del carattere esplorativo dello Zibaldone, che a volta sembra ritornare sui propri passi e tentare nuove possibilità) è costituita invece dall’immagine dei «Californi», popolo privo di società e quindi “naturale”, e delle «californie selve», che compaiono nell’Inno ai patriarchi composto nel luglio 1822 e in alcune annotazioni zibaldoniche del 1823: la fonte, utilizzata con una certa libertà, è l’opera di Francisco Javier Clavijero, la Storia della California (1789), presente nella biblioteca di Recanati in traduzione italiana insieme alla Storia del Messico (1780). Si può dire che i Californiani rappresentino «l’acme della prima fase di riflessione sui selvaggi» (p. 92), che li voleva in una condizione ancora felicemente naturale; essi «non seguono il sistema leopardiano» e la loro immagine non rispecchia «le fonti che Leopardi potè leggere su di loro» (p. 94).
Il 1823 è l’anno di svolta: l’uso eccessivo della ragione sembra identificarsi con l’uso stesso della ragione. Crolla definitivamente, cioè, il primo polo dell’opposizione “natura-storia”, e tutta la storia si rivela storia di corruzione: «Fin dall’alba della storia la ragione […] ha già corrotto irreparabilmente. La speculazione leopardiana crea così due mondi: uno del non pensiero, di sapientissimi primitivi inconsapevoli, con l’eccezione aggiunta ingiustificata dei Californiani, e un altro di esseri tutti sociali: da questa parte sono passati i selvaggi» (p. 99). Ulteriori informazioni, come la lettura della Crónica del Perú (1554) di Pedro de Cieza de Leon, modificheranno inoltre, nella seconda metà dell’anno, l’immagine del selvaggio: l’antropofagia, praticata nei confronti dei propri nemici ma anche, mostruosamente, nei confronti dei propri figli, è la prova agli occhi di Leopardi che il “disordine” coinvolge senza eccezioni tutta la storia della civiltà. Così le annotazioni di fine ottobre (Zib. 3773-3810), l’ultima ampia riflessione sulla società, mostrano il vertice della considerazione negativa sui selvaggi, che si rivelano inevitabilmente barbari, e la loro distanza abissale dai Californiani, che continuano a rappresentare il polo positivo e perciò, al tempo stesso, estraneo alla storia del genere umano. A testimonianza però della “mobilità” della ricerca leopardiana, e dell’influenza che hanno le fonti sullo sviluppo del pensiero (p. 152), Balzano cita il Saggio sopra l’imperio degli Incas di Francesco Algarotti (1753); pochi giorni dopo le riflessioni sulla barbarie dei selvaggi americani, Leopardi “scopre” (Zib. 3833-4) una «civiltà mezzana» nel cuore dell’America abitata da popoli selvaggi, l’impero incaico appunto, che ha saputo con le sole sue forze risollevarsi dalle più raccapriccianti miserie della barbarie (pp. 154-155).
Insomma, Leopardi fa un uso per lo più «dimostrativo» delle proprie fonti, e tende a «crearsi precisi repertori bibliografici da cui trarre uno stesso genere di esempi. Solis è così in primo luogo impiegato per lo studio del timore e dei sacrifici nelle società primordiali, Cieza per la barbarie della vita selvaggia e per l’antropofagia, Algarotti per l’eccezione macroscopica degli Incas, al fine di avere chiara una distinzione che renda l’America – e quindi le sue società – meno soggetta a un giudizio generico» (p. 159).

Nelle Operette morali, gli accenni all’esotico mutano la loro valenza, in quanto non sono più richiamati a fini dimostrativi della filosofia della società, ma per offrire spunti descrittivi ed aneddotici. Analogamente, la differenziazione crescente dei termini “primitivo”, “selvaggio”, “bruto”, “fanciullo”, “antico”, guadagnata nello Zibaldone, viene accantonata a favore di una semplice divisione: da un lato i personaggi del mondo naturale (fanciulli, antichi, primitivi, poeti), dall’altro quelli del mondo sociale e civile (adulti, moderni, barbari, filosofi); «gli unici pronti a passare da un insieme all’altro, secondo i vari momenti, sono sempre i selvaggi» (p. 167). Particolarmente rilevante per il Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez risulta la History of America (1777) di William Robertson, che Leopardi utilizza alla fine dell’operetta per la descrizione dei segni che annunciano la terraferma, mostrando l’attitudine alla rielaborazione. Unica eccezione a questo tipo di uso delle fonti è La scommessa di Prometeo. Infatti il ricorso, a volte sorprendentemente letterale, alla Crónica del Perú di Cieza ha lo scopo di mostrare il fallimento della civilizzazione umana, così come si è configurata nel Nuovo Mondo che appare ormai tanto “vecchio” quanto il Vecchio Mondo: un unico destino accomuna gli uomini, in lotta perenne tra di loro, insensibili anche nei confronti delle persone più prossime, cinici e spietati verso i deboli.
In coerenza con queste conclusioni, all’altezza del 1827 l’argomento Nuovo Mondo viene definitivamente abbandonato: infatti il polo “prima natura” appare irrecuperabile, e Leopardi «si va sempre più concentrando sulla civiltà» (p. 198). Alla luce di questa considerazione si comprende la ricomparsa dei selvaggi nei Paralipomeni: nel quarto canto Leopardi polemizza contro il primitivismo degli spiritualisti reazionari come de Maistre e Lamennais, mostrando in poche ottave la condizione tutt’altro che prossima alla perfezione del «viver zotico e ferino». Nessun ritorno al “primitivo”, come nessuna fede cieca nelle “magnifiche sorti e progressive”; l’unica proposta positiva di Leopardi risiederà in una «sublimazione del dolore nell’utopia della Ginestra, dove l’elogio della consapevolezza e della virtù non si può definire più programma politico, ma superiore richiamo a una società esente da guerre ed egoismi, che rimanga una conquista di cultura e che come tale aggreghi illuministicamente l’uomo contro la morte che la natura rende più precoce» (p. 211).



PUBBLICATO IL : 03-12-2009

 

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