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Gaspare Polizzi, «…per le forze eterne della materia». Natura e scienza in Giacomo Leopardi , Franco Angeli, 2008
di Massimiliano Biscuso

Con questo nuovo libro Polizzi prosegue la sua ampia indagine su Leopardi, le scienze naturali e la filosofia della natura, iniziata con Leopardi e «le ragioni della verità». Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani (Roma, Carocci, 2003), e proseguita con Galileo in Leopardi (Firenze, Le Lettere, 2007). «… per le forze eterne della materia» raccoglie una serie di interventi scritti da Polizzi negli ultimi anni in varie occasioni, che costituiscono – riveduti, aggiornati e ampliati – i quattro capitoli e l’appendice di cui si compone il libro: 1. La biblioteca di Leopardi: nuove fonti, tra pensiero e poesia (pp. 13-54); 2. Spettacolo senza spettatore. Dalla «pietade illuminata» al Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (pp. 55-102); 3. Leopardi, la chimica, i chimici (pp. 103-208); 4. Pensiero dell’animalità e materialismo in Leopardi (pp. 209-226); Appendice. Lettera a un giovane del XXI secolo: inattualità e presenza di Leopardi (pp. 227-240).
L’intento della ricerca di Polizzi è duplice: da un lato, ricostruire le fonti della cultura scientifica di Leopardi, nella consapevolezza che essa abbia profondamente influenzato la visione della natura, dall’altro, contribuire a ricostruire i lineamenti di una filosofia della natura che in Leopardi svolge l’importante funzione di trait-d’union tra filosofia speculativa e filosofia pratica. Una migliore conoscenza, e quindi una ricostruzione più veritiera, del pensiero di Leopardi significa decidere quale ruolo far giocare alla presenza leopardiana nella cultura italiana: se quella del pensatore negativo, che ripiega nella sua reazione contro la modernità sul valore astorico del discorso poetico, oppure quella del pensatore illuminato, alla continua ricerca della verità del mondo della natura e degli uomini, che, seppur «acerba» e «trista», rimane la peculiarità dei moderni. Polizzi opta per la seconda alternativa: il suo Leopardi – mi permetto di aggiungere: il nostro Leopardi – è capace di aprire «un orizzonte “iper-illuminista”», che superi la dicotomia natura-ragione (e per questo direi piuttosto che l’orizzonte leopardiano è post-romantico, in quanto la dicotomia è propria della cultura romantica della crisi), avendo «per oggetto il vero, per metodo l’indagine sui “rapporti” contingenti e complessi che legano gli uomini fra loro e con il mondo naturale, e per obiettivo la felicità, o meglio la solidarietà che riunisce gli uomini in una “social catena” e riduce così gli effetti distruttivi dell’arcano potere della natura» (p. 229).
Il primo obiettivo dell’indagine di Polizzi, si diceva, è la ricerca delle fonti della formazione scientifica e filosofico-naturale di Leopardi; non si tratta di un’indagine erudita fine a se stessa, perché risponde all’esigenza di «riprodurre in forme il più possibile plastiche e dinamiche l’inimitabile stile di pensiero di Leopardi, che instaurava sempre un rapporto mobile, ravvicinato, dialogico con i “suoi” libri. Soltanto provando a rileggere, almeno in parte, i libri letti da Leopardi si può venire – se pure parzialmente – a capo delle forme del suo pensare e quindi comprendere lo svolgimento della sua filosofia» (pp. 9-10). Una ricerca già condotta ampiamente per la produzione poetica, ma non ancora tentata con la stessa acribia sul versante del pensiero filosofico-scientifico. Polizzi dedica molto impegno in questa indagine, rivolgendo la propria attenzione in misura determinante ai testi si cui si formò il giovanissimo Leopardi durante gli anni di «studio matto e disperatissimo», nella convinzione che «L’apprendimento giovanile di Leopardi è segnato da una propensione naturalistica tanto marcata da permanere al fondo della produzione poetica e del pensiero della maturità» (p. 55). Come alcuni studiosi hanno già messo in luce (si pensi ai contributi di Casini e De Liguori), anche Polizzi ribadisce il fatto che negli scritti scientifici e apologetici degli studiosi cattolici su cui si formò il precocissimo poeta e filosofo, Leopardi poté entrare in contatto con la letteratura naturalistica e illuministica, rimanendone per sempre suggestionato, pur nel mutare del quadro filosofico di riferimento, prima provvidenzialistico e tendenzialmente incline a riconoscere i limiti della ragione scientifica nel penetrare la verità della natura, poi materialisticamente stratonico e cosciente del ruolo demistificatore della ragione nei confronti delle «superbe fole» cui gli uomini volentieri credono.
Si badi bene: ricerca delle fonti non può voler dire che il significato di un testo sia spiegato dalla fonte alla quale l’autore ha attinto, traendone ispirazione e spunto. Ci troveremmo, in tal caso, dinanzi ad un esempio di quel «procedimento analitico» che crede di poter meccanicamente dare conto di un testo riducendolo agli elementi di cui, per così dire, è costituito; procedimento analitico che, scaravellianamente, incorre in una duplice aporia: da un lato, poiché ogni testo rimanda ad un numero pressoché illimitato di fonti (e ogni fonte si basa su altre fonti), cioè ogni testo è composto di un numero indefinito di elementi, l’individuazione degli elementi ultimi di un testo è frutto di un arresto arbitrario del procedimento analitico, dovuto all’esigenza e alla pretesa di ritrovare e tener fermo il significato elementare (la pura identità analitica) di ogni singolo elemento, nella convinzione che solo possedendo il significato dei singoli elementi si possa intendere il significato del testo; dall’altro, tale esigenza di comprendere il testo è esaudita dal procedimento contrario, la sintesi, in quanto l’analisi perderebbe il suo senso se perdesse la connessione con il tutto sintetico, con il testo che deve spiegare sulla base dell’individuazione degli elementi costitutivi, cioè della fonte, per cui, tenendo ferma questa volta tale connessione, nessun procedimento si rivela puramente analitico, perché è, insieme e necessariamente, sintetico. È indubbio che talvolta la critica leopardiana incorra nelle aporie del procedimento analitico, che si appaghi cioè dell’individuazione della fonte, come se tale individuazione sia atto sufficiente a spiegare il testo e Leopardi non fosse altro che un “assemblatore” delle diverse fonti. Non è questo il caso della ricerca di Polizzi, che, a parte un qualche compiacimento nell’andare nel dettaglio non sempre indispensabile, tiene sempre unite la dimensione della ricerca delle fonti con quella del significato complessivo del testo di cui di volta in volta si individuano le fonti. Così è il caso, ad es., di Dei fondamenti della Religione Naturale di Valsecchi, il quale a sua volta utilizza come fonte le Nachrichten von Island, Grönland und der Strasse Davis di Anderson, quale fonte del Dialogo della Natura e di un Islandese (pp. 27-39); oppure dell’Histoire du ciel e dello Spectacle de la Nature dell’abate Pluche, degli Entretiens sur la pluralité des mondes di Fontenelle, cui andrebbero aggiunti altri testi ancora, quali fonti di quello spettacolo della natura che il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo mette in scena (pp. 55-102). E si potrebbero aggiungere le numerose opere dei chimici, tra cui spiccano gli scritti di Lavoisier, che hanno permesso a Leopardi di elaborare la fondamentale distinzione linguistica tra «termini», univoci e rigorosi, e «parole», vaghe ed espressive.
A questo proposito – e si tratta a mio avviso del contributo più rilevante offerto dal libro di Polizzi – la conoscenza della ricerca chimica a lui coeva, si configura come «una filosofia chimico-fisica che confluirà nella più complessa e matura filosofia leopardiana della natura» (p. 103), che può essere sintetizzata sotto la definizione di “stratonismo”. Lo stratonismo era già la conclusione dello «spettacolo senza spettatore» del Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, in cui la natura guarda se stessa senza prevedere alcuno sguardo umano, che dia un senso allo spettacolo medesimo: «Lo scenario non contempla esseri viventi, è pieno di presenze cicliche, celesti e terrestri […], ma vuoto di vita: l’antropocentrismo si dissolve nella materialità di una Terra che segue i suoi ritmi, che possiede un corpo e una pelle […], unico essere animato […]. Mentre gli individui e puranco le specie animali, vegetali e minerali, muoiono, la Terra offre il suo panorama rarefatto, ma pur sempre altamente spettacolare, vive la sua vita cosmica nel ciclo ‘eterno’ dell’universo; tra gli esseri viventi e l’essere della natura sembra aprirsi un abisso, una differenza ontologica essenziale» (pp. 101-102). Questa concezione della natura, ciclo eterno di produzione e distruzione degli enti, senza scopo né soggetto, è stata senza dubbio influenzata dalla visione della natura implicita in alcune opere chimiche note a Leopardi: Polizzi cita, tra altre possibili fonti, gli Elementi di fisica sperimentale di Vincenzo Dandolo, secondo il quale non si può concepire la distruzione di un essere senza prevedere nel medesimo tempo la formazione di un altro (p. 145), e le Ricerche sul moto molecolare dei solidi di Domenico Paoli, che con Leopardi aveva stretto legami di amicizia, opera dalla quale emerge una visione vitalistica e dinamica della natura, tale da far parlare di una «“somiglianza di famiglia” tra questo libro di Paoli e la filosofia leopardiana della natura» (p. 181) e che costituisce per Polizzi una «fonte nascosta» del Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco: l’«una o più forze proprie» della materia universale, di cui parla l’operetta, non può non richiamare la convergenza delle forze chimiche, elettriche e magnetiche, e della forza di attrazione universale, che le filosofie chimiche studiate da Leopardi intendevano «come aspetti di una medesima forza che muove tutti gli esseri naturali, organici e non» (p. 207). Così conclude Polizzi: «Il materialismo leopardiano emerge da una continuità di interessi “chimici”: dagli esercizi di studio delle Dissertazioni giovanili, alla lettura di saggi chimici innovativi, alla frequentazione diretta di chimici che uniscono all’aggiornamento disciplinare una buona dose di conoscenze filosofiche e una non episodica vocazione letteraria. Sarebbe parziale e discutibile ridurre il sapere chimico in Leopardi a una vicenda episodica e la sua ricostruzione a un esercizio retorico: esso si configura come una delle radici del materialismo stratonico leopardiano» (p. 208).
La ricostruzione della filosofia della natura leopardiana si arricchisce infine di una breve ma suggestiva indagine sugli animali: dagli scritti giovanili alle riflessioni dello Zibaldone fino ai Paralipomeni, l’immagine dell’animale si trasforma, divenendo una conferma del materialismo stratonico, della sostanziale unità della natura e del comune destino degli esseri viventi. Ma è nello straordinario Elogio degli uccelli che si ritrova forse l’esito positivo più alto del messaggio leopardiano: quello di una felicità legata all’immaginazione, alla ricerca – nell’animale innocente, nell’uomo voluta razionalmente – della varietà delle situazioni, al riso come capacità di guardare le cose umane dall’alto e sospendere così, almeno per un momento, il peso dell’esistenza. «In conclusione – scrive Polizzi congedandosi dal lettore –, la pratica del riso e l’esortazione al riso è un supremo messaggio morale ed estetico che Leopardi lascia ai nostri tempi, testimoniando […] una lezione di stile inesauribile e sempre attuale. Il riso è indice dello stile che distingue il pensatore e il filosofo. […] Con la leggerezza tutta classica del suo stile Leopardi ci indica il tragitto errante e vago del volo degli uccelli: “similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita”» (p. 240).



PUBBLICATO IL : 29-09-2009

 

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