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Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia , Einaudi, 2007
di Federica Buongiorno

L’agile volume di Diego Marconi si presenta sin dal titolo come un tentativo, se non proprio di difesa, quantomeno di argomentazione a favore della tesi per cui è possibile ammettere l’esistenza di verità e valori non relativi, pur nel riconoscimento che i criteri, l’interpretazione o l’accesso possibili ad essi possano essere relativi (ad una cultura nel suo insieme o al singolo soggetto conoscente/valutante): la relatività di tali criteri, interpretazioni o schemi concettuali – su cui sogliono far leva le argomentazioni scettiche – non pregiudicano l’esser vere delle asserzioni, ma solo il modo in cui esse sono conosciute o ritenute giustificate.
Non sarà dunque un caso che il libro muova dalla distinzione tra verità e giustificazione, la quale costituisce il presupposto teorico della tesi generale perseguita da Marconi, nonché un tema a questi assai familiare, poiché già ampiamente indagato da quel Ludwig Wittgenstein di cui l’Autore è un attento studioso sin dalla tesi di laurea, conseguita sotto la guida di Luigi Pareyson nel 1969. L’insegnamento di stampo esistenziale-ermeneutico di Pareyson è ancora palpabile in questa recente opera di Marconi, tutta giocata sulla distinzione tra l’esser vero di proposizioni o valori ed il loro esser ritenuti tali: proprio sul filo di questa distinzione è condotto il confronto con le tesi scettiche considerate. Parallelamente, converge in questo volume anche il filone d’interessi rivolto, in anni più recenti, alla filosofia analitica, con la quale l’Autore si confronta, in particolare, sul campo della logica e della filosofia del linguaggio.
Come dicevamo, il punto di partenza dell’analisi è costituito dalla distinzione tra verità e giustificazione, da cui deriva l’esame delle tesi scettiche dapprima in ambito epistemico, quindi nella sfera dei valori. E’ proprio in quest’ultima, ammette Marconi, che la questione del relativismo si fa più spinosa, poiché ci muoviamo ad un livello in cui le argomentazioni appaiono particolarmente fragili ed opinabili e nessuna sembra imporsi con certezza inoppugnabile: ma, appunto, “sembra”. La mossa dell’Autore consiste proprio nel dimostrare che la questione della verità e della sua giustificazione non assume davvero connotati speciali nella sfera dei valori etici e religiosi: le proposizioni rientranti in questi ambiti non presentano «caratteristiche semantiche particolari», né è qui «in gioco un diverso concetto di verità» (p. 43). Se la critica allo scetticismo risulterà convincente al livello gnoseologico, dunque, data questa equiparazione tra nozione di verità nella sua accezione valoriale e nozione di verità in senso gnoseologico e scientifico, lo stesso scetticismo (e conseguente relativismo) morale sarà colpito dalla critica condotta; appunto perciò il volume si apre con l’esame della distinzione logica tra verità e giustificazione. Avremo modo di interrogare a nostra volta l’equiparazione operata da Marconi e le conseguenze che questi ne trae, nel suo condivisibile tentativo di mostrare l’insostenibilità dello scetticismo «non perché lo scetticismo sia dimostrabilmente falso, ma perché [i suoi sostenitori] non sono davvero disposti a ragionare come se fosse vero» (p. 28), il che implicherebbe una serie di imbarazzanti quanto, di fatto, insostenibili ammissioni – prima fra tutte il dubbio sulla gran parte delle prese di posizione da noi abitualmente compiute nella nostra vita quotidiana, con il conseguente rischio di una rovinosa paralisi di quest’ultima. L’interesse del libro consiste proprio nel tentativo di una critica, per così dire, “indiretta” dello scetticismo: Marconi non si impegna nella dimostrazione della falsità della tesi scettica – una strada già ampiamente battuta nella storia del pensiero e spesso risoltasi in un esercizio dialettico alquanto sterile e di dubbia efficacia contro l’armamentario concettuale impiegato dai sostenitori dello scetticismo. Piuttosto, l’Autore cerca di dimostrare l’impossibilità di seguire fino in fondo la tesi scettica, impossibilità valida per gli stessi sostenitori del dubbio radicale, le cui argomentazioni si rivelano sovente, anzitutto dal punto di vista logico, banali o ridondanti: in altre parole, è una paralisi della vita, più che del pensiero, il vero scoglio contro cui sembra infrangersi lo scetticismo.
Sono tre i grandi temi toccati nel suo pur breve libro da Marconi, connessi tra loro secondo un legame di consequenzialità diretta: in primo luogo lo scetticismo, dalla cui declinazione in ambito gnoseologico ed etico-religioso discendono le tre forme di relativismo qui esaminate (epistemico, concettuale e morale); infine, l’Autore indaga le forme di pluralismo derivanti dalla relativizzazione di verità e valori, dimostrandone lo sbocco nel soggettivismo estremo e dunque, in ultima istanza, nel nichilismo. Il presupposto di partenza consiste nella distinzione, dicevamo, tra verità e giustificazione: l’opportunità di tale distinzione è dimostrata dall’analisi del concetto di giustificazione. Se per giustificata si intende una proposizione argomentata oppure derivata in modo convincente da premesse plausibili, resta sempre possibile che una proposizione sia giustificata senza esser vera: questo induce a tener distinte tra loro le nozioni di verità e giustificazione. Senonché, vi è un terzo modo di intendere la giustificazione, riferito al modo in cui “stanno le cose nel mondo”, che si suppone sostanziare le “autentiche” giustificazioni – quelle, cioè, che incorporano in sé il concetto di verità. Evidentemente, non ogni concetto di giustificazione, ma solo questa sua terza accezione, presuppone il concetto di verità: Marconi è guidato dalla tesi per cui «noi tutti ci auguriamo che le nostre credenze giustificate [in base a premesse plausibili] siano vere, viviamo sulla base della presunzione che lo siano, e difficilmente potremmo vivere diversamente» (p. 22). Appunto perciò è possibile che un’asserzione sia giustificata senza essere vera, benché molti filosofi sostengano che qualsiasi concetto di giustificazione presupponga quello di verità, sulla base della convinzione secondo cui dire che un’asserzione è giustificata significa dire che si ha ragione di ritenerla vera. Marconi evidenzia come anche questa formulazione non possa escludere che l’asserzione sia giustificata senza essere vera, tuttavia essa ha il merito di mostrare che il concetto di giustificazione cui ci riferiamo intuitivamente nella vita quotidiana non coincide con quello forte per il quale la proposizione giustificata è anche vera, se si riferisce a come le cose stanno ne mondo: come sostenuto da Bernard Williams, «una credenza è giustificata solo se c’è ragione di pensare che sia vera» (p. 22). Normalmente, dunque, riteniamo giustificate credenze che non sono vere; ciò non significa, tuttavia, che le riteniamo per questo anche certe. L’ulteriore distinzione da operare sarà, dunque, tra giustificazione e certezza.
Come si sa, il problema dello scetticismo coincide appunto con la questione della certezza della conoscenza: è questa certezza che si trova a venir investita dal dubbio scettico, il quale non è mosso da motivazioni specifiche, come il dubbio normale (Marconi cita in proposito le osservazioni svolte da Wittgenstein in Della certezza), ma dal generico rifiuto della distinzione tra dubbi ragionevoli e irragionevoli che, ancora una volta, è da noi intuitivamente presupposta in numerose circostanze della nostra vita quotidiana. Appunto perciò, «chi aderisce, implicitamente o esplicitamente, alla posizione scettica si distacca – che lo sappia o no, che lo desideri o no – dalla nostra pratica normale»: Marconi ne conclude che «pochi – ipotizzo – sarebbero davvero disposti ad identificarsi con questa richiesta, e con molte altre analoghe a cui la posizione scettica è impegnata» (p. 28). Lo scettico presuppone che una credenza sia giustificata solo nel senso forte della giustificazione, che ingloba in sé il concetto di verità e che, come si è visto, ribadisce piuttosto l’opportunità di distinguere tra giustificazione e verità: se invece, osserva Marconi, accettiamo che la credenza giustificata sia quella che abbiamo ragione di ritenere vera, anche se forse le cose “stanno diversamente”, il fatto che la credenza possa essere falsa non pregiudica la validità di quella ragione. E’ ben possibile, in altre parole, ritenere una proposizione vera perché giustificata; a patto di intendersi su cosa debba assumersi per “giustificato” (che non coincide, di per sé, con “vero”) e di non confondere la nozione di giustificazione con quella di certezza.
Se si ammette questo, la posizione dello scettico inizia a farsi alquanto imbarazzante e difficilmente sostenibile, perché del tutto contro-intuitiva: mosso dal principio che nessuna giustificazione sia tale «se non è dimostrabilmente capace di resistere a ogni obiezione possibile» (p. 32), lo scettico pretende di aver ragione di credere, per esempio, di «star sognando, o di essere cervelli in un bagno organico collegati a un computer» (p. 33) – salvo essere incapace, come è ovvio, di dimostrare di avere tale ragione. Lo scettico sostiene, quindi, che non esistono proposizioni assolutamente vere, ossia in grado di dimostrarsi immuni da ogni possibile obiezione – una dimostrazione, questa, irrealizzabile sul piano logico, dal momento che le conseguenze di un’asserzione sono infinite ed è impossibile verificarle tutte. Ora, è evidente che se non esistono proposizioni assolutamente vere, esisteranno al massimo proposizioni relativamente vere. Lo scettico si farà allora relativista e sosterrà che «ogni asserzione o credenza è vera per X, e spesso non per Y» (p. 50) – dove X e Y possono rappresentare tanto singole persone, quanto intere comunità umane. Si realizza così il collegamento tra scetticismo e relativismo. Marconi rileva subito l’inconsistenza di questa prima forma di relativismo, che sembra piuttosto una mera constatazione di fatto; meno banale è la tesi secondo cui ciò che è relativo sono i criteri di verità in base ai quali qualcosa viene ritenuto vero da X e Y. Anche questa tesi, tuttavia, non è di per sé relativistica, ma lo diventa solo in quanto si affermi che non esistono “metacriteri” per giudicare della superiorità o inferiorità dei criteri stessi di verità (“relativismo epistemico”). Ovviamente, una simile posizione presuppone l’identificazione di verità e giustificatezza: contro questa assunzione, Marconi fa valere l’intuizione realista, in base alla quale si suppone che «c’è un modo in cui le cose stanno, ed è lo stesso per tutti» (p. 57). L’assunzione che agisce alla base della nozione forte di giustificazione è dunque recuperata non come presupposto, bensì come argine alle tesi relativistiche, secondo cui, per l’appunto, un “modo in cui le cose stanno” non c’è affatto e tutto si riduce agli schemi concettuali mediante cui X e Y  ottengono accesso ai “fatti” (dove per “schema concettuale” può intendersi un linguaggio, una teoria, un sistema di rappresentazione e così via). E’ come dire che i fatti non esistono, ma esistono solo le interpretazioni o descrizioni che di essi facciamo; ciò che l’Autore definisce “relativismo concettuale”. Questa forma di relativismo suppone che, non essendoci un “modo in cui le cose stanno”, possano esistere schemi concettuali radicalmente difformi tra loro: diversamente dal relativismo epistemico, dunque, il relativismo concettuale relativizza non tanto le credenze o i criteri della loro giustificazione, quanto piuttosto la stessa ontologia (i tipi di cose e le loro relazioni) a fondamento delle asserzioni. Proprio questa mossa, però, rende il relativismo concettuale alquanto contro-intuitivo: «il sale non era cloruro di sodio prima della creazione della chimica?» (p. 64), si chiede Marconi. Il punto è che, osserva giustamente l’Autore, prima dell’invenzione della chimica l’accesso alla nozione di sale era differente rispetto a quello reso possibile dalla nuova disciplina: allora non sapevamo che, dal punto di vista chimico, il sale fosse cloruro di sodio – ma esso era cloruro di sodio anche prima dell’affermazione della chimica. Non bisogna dunque confondere tra relatività dell’accesso alla conoscenza e relatività degli stati di cose: gli stati di cose, semplicemente, non sono relativi e non dipendono affatto dalla concettualizzazione che ne operiamo – relativizzare l’ontologia è assurdo e non appena rinunciamo a farlo il relativismo concettuale si riduce alla variante epistemica, molto attenuata, del relativismo (che si limita alla constatazione – ovvia – della relatività dei possibili accessi alla realtà).
Se passiamo all’analisi del relativismo morale, ovvero di quella forma di relativismo avvertita come più spinosa, perché applicata a materie in cui l’opinabilità delle posizioni in gioco sembra massima, ci imbattiamo nello stesso processo di riduzione dei fatti ad interpretazioni, di per sé storicamente contingenti e dunque relative. Anche in questo caso, Marconi ribadisce che «quali siano i fatti dipende solo in parte dalle proprietà dei concetti che si è scelto di applicare: perché dipende, il più delle volte, anche da come stanno effettivamente le cose» (p. 75). Tuttavia, la tesi alla base del relativismo morale è supposta fondante quel pluralismo cui sempre di più ci si appella nell’attualità, come risposta – osserva l’Autore – ai problemi posti da un lato dai flussi migratori che da alcuni decenni a questa parte investono paesi in precedenza poco interessati dal fenomeno, dall’altro dall’aggressività dei vari fondamentalismi religiosi, in particolare quello propugnato «da alcuni gruppi che si sono autoproclamati rappresentanti dell’identità islamica» (p. 90). Scetticismo e relativismo si connettono così alla terza, grande categoria del pluralismo. I concetti di pluralismo in questione sembrano essere due: un primo concetto è quello ribattezzato da Marconi “pluralismo dei Cento Fiori” (con riferimento alla campagna dei Cento Fiori lanciata da Mao Zedong nel 1956), che considera la pluralità un valore, sulla base della convinzione che «la repressione delle opinioni dissenzienti e delle forme di vita minoritarie, oltre ad essere un atto in sé violento e perciò condannabile almeno in prima istanza, conduce – si direbbe inevitabilmente – alla riduzione della possibilità di divergenza» (p. 91) e dunque della libertà. Marconi osserva che a questa argomentazione, assolutamente condivisibile quanto alla condanna della repressione, manca una chiara dimostrazione del perché la pluralità sia in sé un bene, soprattutto se essa è fondata su un concetto relativistico dei valori: in realtà, per fondare il relativismo dei Cento Fiori (cardine dei sistemi politici di democrazia liberale) è sufficiente il rifiuto della repressione (l’argomento negativo), poiché l’oppressione delle divergenze è senz’altro un disvalore – indipendentemente dalla determinazione positiva della pluralità come valore. In verità, l’argomentazione di Marconi sembra qui parzialmente contraddittoria: se manca una dimostrazione del perché la pluralità sarebbe senz’altro un valore, non ci viene fornita una chiara dimostrazione del perchè la repressione sarebbe senz’altro un disvalore. Sorge il dubbio che rispetto a questi concetti, semplicemente, una dimostrazione logica (che vada cioè al di là della, pur richiesta, argomentazione il più possibile fondata pro o contro l’una o l’altra nozione) sia inconseguibile: non si possono trattare i concetti della morale allo stesso modo in cui si trattano quelli logici e incominciamo così a vedere il limite di quell’equiparazione tra verità in senso logico e verità in senso morale presupposta da Marconi sin dall’inizio dell’analisi. 
L’Autore dimostra in modo evidente, comunque, come il pluralismo dei Cento Fiori non sia di per sé relativistico: si può rifiutare la repressione delle opinioni diverse dalla propria senza fondare tale diversità, e il rispetto ad essa dovuto, su un suo presunto relativismo. Vi è motivo, a maggior ragione, di contestare anche quella forma di “pluralismo dell’equivalenza” secondo cui le varie opzioni etiche, religiose o filosofiche sono tra loro equivalenti e dunque hanno lo stesso valore, sì che è impossibile istituire tra di esse delle gerarchie di valore: le alternative non possono né devono venir confrontate quanto al loro valore. L’eventuale scelta tra le varie opzioni possibili è puramente espressione di una preferenza soggettiva, una mera “questione di gusti” derivante dalla costituzione biologica e dalla storia pregressa del soggetto, dunque determinata da processi causali non sostenuti da ragioni: poiché non c’è oggettività nella scelta, non c’è neanche errore ma, al più, diversità di “gusto”. E’ per questa via che la catena scetticismo-relativismo-pluralismo sfocia nel soggettivismo: si osservi come finora l’argomentazione di Marconi si è mossa su un piano alquanto generale, pur entrando progressivamente nell’ambito della determinazione morale. Ciò discende ancora una volta dalla cruciale convinzione secondo cui la nozione di verità è una e medesima, sia che se ne tratti in gnoseologia, che nella vita di tutti giorni o nei “difficili” campi dell’etica e della religione; tuttavia, quando parliamo di valori subentra un livello ulteriore, di cui l’Autore stesso dà conto, rappresentato dall’ambito della politica e della scelte in esso operate.
In questo ambito la tesi del relativista/pluralista dell’equivalenza diventa estremamente pericolosa, poiché si fonda sul presupposto che, in quanto equivalenti, i fini e i valori propugnati da individui o gruppi siano tutti ugualmente legittimi – il che appare quanto meno esagerato. Come si è già visto, per esigere rispetto verso i valori è sufficiente l’argomento negativo avanzato dal pluralismo dei Cento Fiori: non c’è bisogno diretto, per sostenere tale rispetto, di dichiarare tutti i valori equivalenti e dunque ugualmente legittimi. La stessa costituzione italiana «non è affatto “relativistica” nel senso di essere neutrale rispetto a qualsiasi fine o valore e di trattarli tutti come ugualmente legittimi; al contrario, è solidamente ancorata a una lunga serie di scelte di valore […] che discriminano come disvalori le opzioni incompatibili con quelle scelte» (p.109). Il punto è che il soggettivismo dei valori consiste nell’affermazione per cui «qualcosa ha valore perché ha valore secondo me», così che se qualcosa non è da me riconosciuto come valore, allora esso non è (per me) affatto un valore: s’introduce così, surrettiziamente, una scala di valori anche in questo ambito – una scala peraltro tanto più dogmatica, quanto più riconosce unicamente i miei valori. Ne consegue che «per poter parlare di senso morale in questo contesto, bisogna spogliare l’aggettivo di ogni connotazione valutativa: “morale”, in questo senso, è ciò che qualcuno reputa bene nell’ordine delle azioni, indipendentemente dal fatto che sia bene o che noi lo riconosciamo come tale» (p. 115). Nell’intento di garantire il rispetto di ogni valore, dunque, il pluralista dell’equivalenza incappa nel suo rovescio, ovvero nell’incapacità di riconoscere i valori altrui: la sua argomentazione si riduce alla constatazione nichilistica, presunta (ma solo presunta) a-valutativa, per cui non ci sono valori ma solo preferenze causalmente determinate. In verità, questa tesi assume non che non vi siano valori, bensì che vi siano soltanto i miei valori. Se tutto, d’altronde, si riduce infine ad una questione di “gusti”, come si potrebbe contestare – domanda Marconi – colui che “preferisse” il valore della persecuzione e dell’odio, essendo motivato in ciò dalla propria storia causale? Come si vede, il pluralista etico incappa in contraddizioni analoghe a quelle incontrate dal relativista e dallo scettico, appunto per il fatto che – per poter essere pluralista dell’equivalenza – egli stesso deve assumere un atteggiamento scettico-relativistico: se questa tesi di Marconi ci pare condivisibile, le conseguenze che riteniamo discenderne sono tuttavia parzialmente diverse.
Il fatto che il pluralista dell’equivalenza non possa che essere relativista e, alla base, scettico, in morale come in gnoseologia, dimostra certamente che il suo stile di ragionamento (come quello dell’assolutista etico, d’altronde) funziona sempre in un certo modo, ovvero che egli pensa le nozioni di verità, di giustificazione, di certezza etc. secondo uno schema in primo luogo logico, e poi eventualmente applicato ai vari ambiti esperienziali. Ciò assicura che, per parlare secondo i termini classici metafisici, il concetto di queste nozioni è uno e medesimo, che la forma del suo ragionamento è determinata “normalmente”, il che è auspicabile se non vogliamo attribuire al soggetto una schizofrenia non tanto del comportamento (può “capitare”, per molte ragioni, di comportarsi diversamente da come si pensava o si pensa che ci si dovrebbe comportare), quanto del pensiero (il che sarebbe più grave, poiché risulta difficilmente determinabile come si potrebbe pensare diversamente da come si pensa). E’ dunque vero che il concetto di verità è sempre lo stesso, se per “concetto di verità” intendiamo la forma del concetto: da tale riconoscimento non ci sembra derivare, tuttavia, una possibilità di equiparazione delle verità, ragioni, certezze stesse in gioco o del modo di “trattarne”. Ferma restando la forma, infatti, il contenuto di una verità logica è altro da quello di una verità morale, la posta in gioco nei due casi non è la medesima e, di conseguenza, il modo stesso di trattarne (l’atteggiamento vitale con cui ne trattiamo e parliamo) viene a modificarsi. Le conseguenze dell’infrazione di un principio logico, quale può essere il principio di non contraddizione, sono diverse da quelle che derivano dall’infrazione di una regola morale quale può essere il divieto di uccidere un prossimo: proprio perché nel secondo caso sono in gioco fatti concreti, quegli “umili fatti” che Marconi rivendica come imprescindibili, l’importo delle nozioni etiche si rivela differente e non riducibile a quello inerente alle nozioni logiche. E’ ben vero che sono, in un certo senso, “fatti” anche quelli trattati in logica; ma, appunto, “in un certo senso”, per cui la posta in gioco non ha la stessa valenza vitale che riscontriamo nel campo della morale. Il rifiuto del divieto di confrontabilità dei valori in base al veto posto dal pluralismo e denunciato da Marconi ci pare condivisibile, dunque, non sulla base dell’equiparazione del discorso morale a quello scientifico o gnoseologico in senso lato: il relativismo morale va piuttosto evitato per il dogmatismo in cui paradossalmente sbocca, come evidenziato dallo stesso Marconi, nel momento in cui – credendo di far giustizia ad ogni alternativa – assegna a tutte le opzioni uno stesso valore, una stessa legittimità, rifiutandone la comparabilità e rinunciando all’esercizio di quel giudizio morale in cui, proprio nella vita d’ogni giorno, si concreta per noi l’esercizio della morale. Come già dal versante logico, è la contro-intuitività, ovvero l’opporsi alla “vita” o quantomeno il rifiuto di misurarsi con essa, il vero argomento che parla contro ogni scetticismo-relativismo-pluralismo dell’equivalenza – ciò che l’Autore definisce “la paura della verità”, e che trova espressione esemplare nei tre atteggiamenti (infantile, risentito e foucaultiano) esaminati in chiusura del libro.
Un’ultima osservazione ci sembra ancora imporsi: fondando la contro-intuitività delle argomentazioni scettico-relativistiche sulla base dell’equiparazione del discorso sulla morale a quello svolto in qualsiasi altro ambito disciplinare in cui intervenga il concetto di verità, ed assegnando a questo il medesimo significato in ogni sua declinazione, si ottiene l’effetto rischioso di uno svuotamento contenutistico della nozione stessa di verità. Per poter mantenere sempre lo stesso significato in ogni ambito d’applicazione, infatti, sembrerebbe che la nozione di verità non si possa in alcun modo definire positivamente: in ultima istanza, l’argomentare Per la verità di Marconi non ci dice cosa sia verità, non ovviamente in generale, ma in esempi concreti di declinazione di quel senso non relativistico della verità che viene difeso attraverso tutto il volume. A parte l’esempio, non filosoficamente impegnativo perché, per così dire, “in forza di legge”, della costituzione repubblicana italiana, altri esempi concreti non vengono forniti: lasciamo indeciso se ciò accada per un intento programmatico da parte dell’Autore, come potrebbe essere imposto dalla brevità della trattazione, o perché, nonostante tutto, la sgradevole sensazione di abbandonare il relativismo etico e la sua non confrontabilità dei valori per una qualche forma di assolutismo etico in cui si dica cosa effettivamente è meglio (in senso morale) di qualcos’altro, resta, al fondo e dati i tempi, motivo di vago turbamento; rimane assolutamente apprezzabile la serietà con cui Marconi svolge il suo tentativo di rovesciare l’onere della prova e chiedere ragione di sé a quelle concezioni, filosofiche in senso lato, troppo spesso date oggi semplicemente per scontate.



PUBBLICATO IL : 08-07-2009

 

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