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Dario Ippolito, Mario Pagano: il pensiero giuspolitico di un illuminista , Giappichelli, 2008
di Carlo Scognamiglio

Sono molti gli elementi che rendono questo libro di Dario Ippolito un contributo importante alla storia del pensiero italiano settecentesco. Si tratta di uno studio pluriorientato, che al tempo stesso mette chiarezza in un dibattito storiografico, solleva questioni filosofiche strutturali nell’ambito delle teorie del diritto e della politica, ma sa anche tratteggiare magistralmente il profilo di una figura tanto affascinante quanto sfuggente della storia moderna. A complemento di queste qualità, di cui dirò tra breve, s’impone la buona scrittura, di cui l’autore non nasconde le virtù, dando vita a un testo sempre decifrabile e mai bolso nell’argomentare.
Una breve introduzione svolge il compito di definire al meglio il profilo di Mario Pagano, più volte revisionato in sede storiografica. La tradizione - in particolare nelle interpretazioni classiche di Franco Venturi e Gioele Solari - ha a lungo assegnato a Pagano l’immagine di un intellettuale interno all’orizzonte del dispotismo illuminato. Lo spirito della ricerca condotta da Ippolito, pur pazientando nell’analisi stratificata della teoria costituzionalistica, del garantismo penale e del repubblicanesimo, è invece orientato alla riconfigurazione di Pagano come pensatore e uomo politico animato da convinzioni antidispotistiche.
I passaggi analitici sono articolati in un itinerario che prende le mosse dai problemi "ontologici" della teoria giuridica e politica di Pagano, legati al suo eclettico giusnaturalismo, per poi immergersi in un’indagine relativa ai problemi di teoria dello stato, di giustizia penale e al suo repubblicanesimo.
Dal punto di vista filosofico i fili problematici che si intrecciano in fase "fondazionale" appaiono particolarmente importanti, e non semplici da dipanare. Come l’autore non manca di segnalare, Pagano non è un filosofo di professione, non è versato alla rigorosa sistemazione dei propri pilastri concettuali, e non disdegna forme di eclettismo piuttosto spinte nell’architettura del proprio pensiero; un eclettismo, precisa Ippolito, mai politico, ma esclusivamente ontologico e gnoseologico, reso tale dalla convivenza di elementi teorici assai eterogenei, così definiti dall’autore: giusnaturalismo "antroponomico", giusnaturalismo "storicistico" e giusnaturalismo "ontonomico". La convivenza dei tre approcci non avverrebbe su un piano di eguale di validità, ma pare caratterizzarsi per attribuzione di importanza e peso – nell’economia del pensiero paganiano - proporzionalmente inversi rispetto all’ordine in cui sono stati presentati. Più forte e fondativo dunque il giusnaturalismo ontonomico, assai meno rilevante - se non addirittura trascurabile - quello antroponomico. 
Cerchiamo dunque con ordine di definire meglio il più significativo dei tre elementi dati. Ippolito ricorre all’aggettivo ontonomico per indicare un solido riferimento alla legalità naturale, e soltanto per evitare equivoci semantici non usa il termine “fisionomico”; l’importanza di questa precisazione si situerebbe nel proposito di discriminare il giusnaturalismo paganiano, fondato sulla normatività della natura, da quello di John Locke, pensatore peraltro assai importante per lo stesso Pagano, di impronta razionalistica. Nella prospettiva ontonomica, la legge naturale «non è concepita come una norma che il soggetto trova in sé ricavandola autonomamente dalla ragione, bensì come una prescrizione posta nell'oggettività della natura» (p. 21), un’oggettività però non risolta nella biologia, ma in un disegno ontologicamente universale, in un orizzonte "cosmico".
Accanto al naturalismo giuridico si colloca però il secondo elemento, che comincia a generare qualche problema di compatibilità. L’ossimorico giusnaturalismo storicistico è qui inteso come difesa del valore di sedimentazione della vita sociale, quale fucina del diritto naturale. In altri termini, forse meno equivoci, riallacciandosi in modo non rigoroso ma “ispirato” alla lezione vichiana, Pagano propenderebbe per una «visione relativistica del diritto naturale»; ciascun livello dello sviluppo sociale sembra dunque presentare, agli occhi dell’eroe della rivoluzione napoletana, un “proprio” diritto naturale. Sebbene l’ossimoro possa essere in qualche modo risolto nella spiegazione del termine “naturalità” con “spontaneità” o “non-artificiosità” delle istituzioni giuridiche, certamente questa forma di giusnaturalismo storicistico male si combina con l’orizzonte “cosmico” evocato dall’approccio ontonomico. Sebbene si tratti di una prospettiva indicata dallo stesso Ippolito come assai marginale, ancor meno congruente col tutto appare il contributo offerto dal giusnaturalismo antroponomico, espressione con cui si vuole indicare «quella dottrina che postula la presenza della legge di natura in interiore homine, non in quanto recta ratio (come nel giusnaturalismo razionalistico), bensì come naturale sentimento di giustizia» (p. 7).
Al di là di questi evidenti problemi filosofici, che naturalmente vanno attribuiti prima che al Pagano alla filosofia del diritto in senso lato, che talvolta si affatica su "ontologie regionali" prescindendo dall’ontologia generale, che deve mutuare altrove o semplicemente trascurare per volger lo sguardo al proprio oggetto, il libro di Ippolito procede con correttezza misurando il proprio obiettivo sul proprio autore. Come recita un proverbio cinese, ogni toppa ha la propria chiave, e così, nel caso di una figura di teorico e uomo d'azione come Mario Pagano, gli strumenti analitici di Ippolito devono attraversare il controllo filologico, storiografico, la cura per la citazione e la misura con le tradizioni di pensiero giuridico e politico. L’aver presentato anche dei temi più squisitamente teoretici, pur non essendo Pagano un pensatore rigoroso, è certamente un merito dell’autore, che ha dischiuso così al lettore il quadro della complessità che giace al fondo del pensiero di una notevole figura dell’Illuminismo italiano.



PUBBLICATO IL : 12-03-2009

 

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