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Fiorinda Li Vigni, Il concetto di astratto nel giudizio sulla Rivoluzione francese (Burke, Maistre, Cuoco, Hegel, Marx) , Istituto Italiano per gli Studi Filosofi, 2006
di Massimiliano Biscuso

Il lavoro di Fiorinda Li Vigni, nato da un ciclo di lezioni tenute ad Andria, nell’ambito di quelle Scuole estive di alta formazione per le quali l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici è tanto meritorio, intende contribuire a chiarire la nozione di «astrattezza», utilizzata come capo d’accusa nei confronti dei principi della Rivoluzione francese, con un’analisi dettagliata, che sappia distinguere posizioni tra loro solo apparentemente simili. Non si tratta di una ricerca dal valore esclusivamente storico, perché, come è noto, tale accusa si è riproposta anche ai nostri giorni, «nella tesi cara al pensiero liberale e al revisionismo storico, secondo la quale la genesi del moderno totalitarismo andrebbe ricercato nel pensiero dei moderni philosophes e nelle basi teoriche del radicalismo rivoluzionario» (9).
Gli autori presi in considerazione sono Burke, de Maistre, Cuoco e Hegel; al giovane Marx è dedicato invece un breve paragrafo, a conclusione del capitolo su Hegel. L’accusa di astrattezza nasce dalle Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke, quale caratteristica di una rivoluzione che ha preteso di trovare la sua giustificazione in una ragione ostile ed estranea alla tradizione politica della Francia, una ragione, se così si potesse dire, incapace di riconoscere le buone ragioni della tradizione, e perciò unilaterale e violenta. Anche la successiva requisitoria di de Maistre contro la rivoluzione francese rientra nell’ambito tematico dell’astratto, perché per il pensatore cattolico le istituzioni debbono essere sottratte all’arbitrio della ragione individuale e restituite all’opera creatrice di Dio. L’accusa di astrattezza si ritrova però anche in pensatori che sono ben lontani dal rigettare tout court la rivoluzione. Con Cuoco il concetto di astratto «passa a designare l’insieme dei problemi legati alla complessità dell’istituzione di un nuovo ordine costituzionale a seguito di eventi che abbiano segnato una rottura drastica con il passato» (14-15). In questo senso sembra possibile ritrovare un punto di contatto con la riflessione hegeliana: se Hegel, al contrario di Cuoco, afferma la natura filosofica della rivoluzione francese, sottolinea tuttavia il carattere astratto della libertà del Terrore, incapace di dare vita a una qualsiasi opera particolare. Inoltre Hegel rileva l’astrattezza del liberalismo, la cui visione dello Stato fa perno sulla libertà del singolo e sui suoi fini particolari, e l’astrattezza della rivoluzione soltanto politica non accompagnata da una adeguata trasformazione della coscienza. Infine Marx, nella Questione ebraica, ritiene che la libertà incarnata nello Stato di diritto sia formale, cioè, appunto, astratta.
È opportuno in questa sede soffermarsi, sia pur brevemente, sull’ampio capitolo dedicato a Cuoco (Vincenzo Cuoco: la critica all’idealismo rivoluzionario, 85-133), e in particolare alla sua opera più celebre, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. L’analisi della Li Vigni si muove all’interno del rinnovamento degli studi cuochiani promosso da Antonino De Francesco, il quale, contestando la lettura in chiave conservatrice o addirittura reazionaria del pensatore molisano, ha cercato di dimostrarne l’appartenza al democratismo rivoluzionario (e per far ciò ha dovuto non solo respingere l’equivalenza tra democrazia e robespierrismo ma addirittura riconoscere tratti democratici nella vicenda termidoriana!). Se ne distingue, però, non solo perché attribuisce a Cuoco una «posizione moderata», pur riconoscendone l’appartenza allo «schieramento patriottico» (102), ma anche per la sensibilità filosofica con cui legge il Saggio storico. Il tema dell’astratto viene introdotto quando Cuoco coglie la contraddizione tra istituzioni e idee: le contraddizioni della società di antico regime hanno reso impossibili le riforme, di qui «il carattere estremamente generale, astrusamente metafisico dei princìpi rivoluzionari» (97), che hanno dovuto fare tabula rasa del passato. Ma proprio la generalità dei princìpi rivoluzionari, necessaria all’opera di distruzione, è incapace di fondare nuove istituzioni: «La legge deve essere chiara nel suo enunciato, non rimanere confinata alle generalità, ma discendere fino al piano sensibile che è di più facile comprensione»(99).
La nozione di astratto si applica a maggior ragione alle vicende della rivoluzione napoletana del 1799, definita, com’è ampiamente noto, «rivoluzione passiva», perché basata sulle armi francesi, e destinata al fallimento, incapace, come fu, di realizzare la necessaria saldatura tra repubblicani e masse popolari, di trarre le idee della rivoluzione, come scrive Cuoco, «dal fondo istesso della nazione». La rivoluzione napoletana fu dunque astratta per due motivi. In primo luogo perché fu «il tentativo di imporre a un popolo delle idee estranee, in luogo di attingere alla tradizione degli istituti di autogoverno sopravvissuti al giogo del dispotismo» (108). In secondo luogo perché essa non riuscì a colmare il divario esistente fra popolo e intellettuali, distanti non solo per opinioni, ma addirittura per linguaggio. Ma un terzo significato di astratto si affaccia nelle pagine della seconda edizione del Saggio storico, a proposito di Robespierre, che avrebbe spinto l’eguaglianza oltre la volontà del popolo e oltre il confine del diritto (ma si dovrebbe chiedere a Cuoco: quale popolo? quale diritto?). In questo terzo significato «Astratte sono quelle idee che rispondono alle esigenze di pochi, contro i bisogni sentiti dal maggior numero» (114).
Il tema dell’astratto è utile anche per esaminare i Frammenti di lettere a Vincenzio Russo. Per Cuoco l’utopia egualitaria di Russo ha «il difetto fondamentale di porre alla base delle costituzioni un concetto di virtù riconducibile a un semplice appello morale – il richiamo ad antichi precetti o a costumi semplici – senza porsi piuttosto il problema di far derivare tale virtù da una promozione delle attività economiche del paese che distrugga al tempo stesso “le produzioni che nulla producono” e quelle che “consumano più di ciò che producono”» (131). Un’analisi dunque, quella di Russo, astratta e perciò destinata al fallimento se attuata – come destinata al fallimento fu la tragica esperienza della Partenopea.

PUBBLICATO IL : 15-09-2007
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