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Andrea Bini, Kant e Carabellese , Luiss University Press, 2006
di Federico Ferraguto

Più che una vera novità nel panorama degli studi carabellesiani la monografia di Andrea Bini, Kant e Carabellese, rappresenta il vertice di una prospettiva di ricerca maturata già a ridosso degli anni ’70. Nel 1969, infatti, Giuseppe Semerari alimentava l’interesse per uno studio preciso e sistematico del rapporto Kant-Carabellese pubblicando i corsi che quest’ultimo tenne su Kant a Roma fra il 1943 e il 1947 con il titolo La filosofia dell’esistenza in Kant. In un libro agile ed efficace del 1988, Edm ondo De Liguori (Il problema interno della filosofia di P. Carabellese, Roma, Bulzoni), percorrendo una via aperta da Emilio Garroni, presentava la lettura che Carabellese dà dei Prolegomena come il momento principale per spiegare gli sviluppi della questione del ‘problema interno’ della filosofia nel quadro dell’ontologismo critico. In anni ancora più recenti, invece, Bruno Morabito (Metafisica e teologia in Pantaleo Carabellese, Falzea, Reggio Calabria 2001) opera una ricognizione dell’interpretazione carabellesiana della filosofia pratica di Kant per chiarire la gestazione della prospettiva metafisica de Il problema teologico come filosofia, l’opera forse teoricamente più rilevante del Molfettese. In ciascuno di questi casi lo studio del dialogo critico fra Carabellese e Kant viene condotto alla luce di interessi storico-filosofici e problemi ermeneutici ben precisi, ma non sempre con l’intenzione di vedere nel rapporto con Kant una delle questioni strutturali per lo sviluppo dell’ontologismo di Carabellese. Il lavoro di Bini si prefigge uno scopo diverso. L’Autore si dispone, infatti, ad indagare il binomio Kant-Carabellese in tutta la sua vastità teorica offrendoci anche un quadro approfondito della complessità degli approdi filologici e delle emergenze storico-filosofiche legate ad esso. Sicché Kant e Carabellese costituisce in primo luogo un’importante ricerca che esprime un serio avanzamento degli studi su Carabellese. In secondo luogo, Bini ripropone una chiave di lettura della filosofia critica con la quale anche il più raffinato kantista è tenuto a confrontarsi ogni qualvolta intende dedicare le proprie forze a quel problema teorico rappresentato dalla riflessione su ‘i limiti del trascendentale’. Il libro di Bini rende giustizia, infine, ad un episodio non trascurabile della recezione italiana di Kant e dell’intero programma della filosofia moderna, rafforzando la convinzione che fu già di Semerari, per il quale “Carabellese comprende il senso della filosofia moderna fuori dai parametri a cui l’egemonia neoidealistica e storicistica aveva impresso una circolazione forzata” (Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli 1988, p. 154).
Ritengo superfluo continuare a lamentare la scarsa notorietà di Carabellese al pubblico filosofico, italiano e non, e soffermarmi eventualmente anche ad isolare le ragioni di questo fenomeno. Questo perché l’interessante bibliografia che Bini pone a conclusione del volume lascia intravedere come alcuni dei principali protagonisti del novecento filosofico italiano abbiano costantemente tenuto in considerazione la prospettiva filosofica proposta da Carabellese, vuoi per farne un contrappeso teorico ad autonome proposte teoriche (Guzzo, Gentile), vuoi per criticarne la programmatica inconcludenza sublime, secondo una formula cara a Croce. Peraltro, la bibliografia curata da Bini ci offre un quadro sintetico della storia degli studi kantiani dell’Italia del ‘900, all’interno del quale non è difficile scorgere espressioni di chiara attinenza agli sviluppi dell’ontologismo critico. Dissolto dunque il sospetto che la ricerca di Bini possa in un certo senso rappresentare uno studio di nicchia, sarà invece interessante soffermarsi sulle questioni intorno alle quali l’Autore ci invita a riflettere.
Volendolo sintetizzare in una formula, il percorso di Bini esibisce il modo in cui Carabellese, studiando Kant, trova gli strumenti linguistici e teorici necessari per criticare gli esiti della filosofia kantiana. Di converso, l’Autore mostra come la critica di Carabellese a Kant sia la condizione di possibilità per il ritorno a Kant stesso sviluppandone l’implicito potenziale metafisico. Questa impressione generale appare confermata da una rilettura della complessa tessitura che Bini offre nel suo lavoro. L’Autore prende infatti le mosse dai primi studi kantiani di Carabellese alla scuola di Masci prima, e di Varisco poi. Da questi suoi maestri, però, il Molfettese si distanzierà ben presto. Non una mera interpretazione funzionalistica dell’apriori kantiano (Masci), né tantomeno un sacrificio del potenziale gnoseologico del criticismo a vantaggio della ricerca di Dio o dell’ostinato sforzo di offrire una giustificazione razionale del teismo, come accade invece nei Massimi problemi diVarisco. Carabellese intende, piuttosto, e fin dalla Critica del concreto (1921), porre l’accento sul valore metafisico della singolarità molteplice (p. 23). Il molteplice che si dà nella relazione conoscitiva fra soggetto e oggetto, secondo Carabellese,  non deve esaurirsi nella sua dimensione fenomenica. Esso deve presentarsi vieppiù come espressione di quel nesso di individuazione fra soggetto e oggetto che forma la concretezza della coscienza. Si noti però che questo processo di ripensamento di alcuni elementi del neokantismo italiano, e in questo caso soprattutto della nozione di ‘concrescenza’ elaborata da Masci a cui Bini non mi pare dedicare sufficiente attenzione, non si traduce in un episodio di degenerazione speculativa di quegli assunti che avevano determinato le più vaste sorti del neokantismo tedesco (rapporto della filosofia critica con le scienze, interpretazione psicologica delle strutture a priori, avvio di una filologia kantiana). Né si deve credere che la traduzione carabellesiana del kantismo nel progetto di una “metafisica critica” possa essere ridotta a torsione metodologica dell’hegelismo – o dell’attualismo gentiliano – svuotata di ogni fisionomia speculativa e identificabile con una forma “arcaica” di trascendentalismo dal sapore quasi pre-critico, come sembra talvolta lasciar intendere Abbagnano. Carabellese tenta, invece, di lavorare ai margini del ‘trascendentale’ in vista di una radicalizzazione di quest’ultimo, da ottenersi mediante una critica serrata del linguaggio e della concettualità della tradizione filosofica occidentale. L’“oggetto puro” a cui Carabellese si riferisce non ha infatti il carattere di un in sé presupposto, o contrapposto, ad un soggetto precostituito. L’“oggetto puro” è noumeno, cioè istanza sovrasensibile implicita nel soggetto, che eccede rispetto a quest’ultimo ma che, al contempo, sancisce la concretezza del soggetto stesso, intesa come unità di sensibile ed intelligibile, teoria e prassi, immanenza e trascendenza. Dal punto di vista gnoseologico, il riferimento all’oggetto puro rappresenta la garanzia per la formulazione di giudizi dotati di validità universale (p. 70). Dal punto di vista pratico, invece, il riferimento al noumeno consente di pensare compiutamente l’autonomia della libertà e di legittimare le istanze metafisiche della ragione, che Kant esprimeva sotto forma di postulati della ragione pratica (Dio, libertà, immortalità, pp. 209-211). Bini spiega come il pensiero di Kant svolga una duplice funzione rispetto a questi assunti di base dell’ontologismo critico. Da una parte, proprio perché non giunge ad una efficace critica linguistico-concettuale della tradizione filosofica, Kant scambia dogmaticamente il noumeno con una cosa in sé esterna al soggetto, alimentando in questo modo quella perversione della filosofia moderna che rende la cosa materiale l’unico obiettivo e il vero banco di prova del conoscere. Dall’altra, però, il grande merito di Kant sarebbe, secondo Carabellese, quello di aver mostrato, con l’affermazione della noumenicità dell’essere in sé, che la destinazione della ragione umana non si esaurisce nella esperienza fenomenica. L’“accorgimento critico della finitezza” della ragione (p. 48) conduce quest’ultima a comprendere che il noumeno non è un semplice oggetto che può essere consaputo, ma è un termine che deve essere incluso nello stesso sapere come cifra che lo rende immune da ogni relativismo scettico. La disposizione di questi elementi teorici crea lo sfondo su cui l’Autore costruisce la propria accurata indagine che privilegia la lettura che Carabellese offre della filosofia pratica di Kant e in particolare della Fondazione, tradotta e commentata ampiamente nel 1936. Tramite l’affermazione della noumenicità dell’essere in sé Carabellese ritiene impossibile ridurre la critica kantiana ad una gnoseologia. La ragione critica, consapevole della sua tendenza verso l’incondizionato, e insieme dei propri limiti speculativi, “scorge l’orizzonte del vero essere noumenico come campo suo proprio e può vedere così nella morale” una via sicura per raggiungere quel sovrasensibile che invano cercava di attingere mediante il conoscere (p. 60). Il privilegiamento dell’analisi della morale kantiana da parte di Carabellese, messo in luce da Bini fin dal primo dei sei capitoli di cui si compone il volume, consente all’Autore di svolgere un’analisi serrata degli aspetti epistemologici della Critica a partire dalla discussione della III Antinomia (Cap. II). Lo studio di questo importante locus kantiano lascia emergere, da una parte, le basi per una indagine più approfondita della interpretazione kantiana del concetto di libertà (Cap. III) e, dall’altra, una ridiscussione del problema della trascendenza che si serve dell’analisi della dialettica del Sommo Bene (Cap. IV). Anche in questi casi la difficoltà di Kant rimarrebbe, secondo Carabellese, la medesima: Kant non riuscirebbe a comprendere che il principio del concreto (Dio) non trascende semplicemente il concreto stesso ma deve essere piuttosto immanente ad esso e riflettere quel nesso di individuazione dell’oggetto nel soggetto già considerato in precedenza. Di conseguenza, e in un ambito di più stretta pertinenza della ragione pratica, ogni distinzione fra soggetto e oggetto, secondo Carabellese, non potrebbe che ricondurre le verità della morale alla religione. Ciò comporterebbe, tuttavia, la formazione di un’etica sostanzialmente eteronoma, nell’orizzonte della quale ogni aspirazione metafisica della coscienza rimarrebbe frustrata in un acritico dogmatismo (p. 176). La purezza dell’etica kantiana, il valore fondante della libertà e il significato della concretezza di coscienza, quale campo di immanenza per il rivelarsi di Dio nella sua trascendenza, trasfigurerebbero così in un vuoto arbitrio, in una morale soggettiva e in una etica del successo à la Hegel. Particolarmente interessante per l’approfondimento di questi nodi problematici è il modo in cui Bini, nel Cap. V, discute la critica di Carabellese ai Paralogismi. La trattazione dell’idea psicologica non deve riguardare - sostiene Carabellese - la sola questione della realtà dell’io come sostanza semplice, bensì rinviare ad una analisi della costituzione ontologica del pensare (p. 219). L’io deve rappresentare, nel quadro dell’ontologismo carabellesiano, non un soggetto presupposto ma il concretizzarsi individuale dell’oggetto puro nel soggetto. Quest’ultimo non può essere veramente tale – cioè cosciente di sé – se non come coscienza della infinita virtualità dell’oggetto medesimo. Dopo aver chiarito la questione dell’autocoscienza, Bini può stringere il cerchio delle sue analisi e legittimare la propria chiave di lettura che tende a vedere il pensiero di Carabellese come un orientarsi progressivo verso un “rigido oggettivismo che cercherà una conciliazione fra criticismo e ontologismo spinoziano, ciò che Kant volle escludere per tutta la vita” (p. 115). La descrizione di questo procedere con Kant oltre Kant ‘via Spinoza’ rende possibile, infatti, un penetrante bilancio della sostenibilità dell’ontologismo critico, che Bini suggella, nel Cap. VI, sintetizzando la posizione di Carabellese come una “correzione del criticismo in un immanentismo oggettivistico dal carattere profondamente spinoziano” che rifiuta “l’ingenuo teismo antropomorfico della religione rivelata” (p. 268). Proprio sottolineando questa emendatio del criticismo nell’ontologismo critico Bini chiude coerentemente il suo percorso con una diffusa discussione del ripensamento carabellesiano del Weltbegriff di filosofia descritto da Kant. In tale contesto la critica a Kant e il profilarsi della nozione carabellesiana di filosofia come ‘supremo sforzo di riflessione spirituale’ si fondono nella felice sintesi per cui la riforma del criticismo nell’ontologismo critico si configura come un rimettere in atto le esigenze proprie del criticismo medesimo nelle sue istanze più profonde. Questo significa, in ultima analisi, riproporre, senza tener conto delle derive fichtiano-hegeliane, “la prima luminosa intuizione dell’incondizionato come assoluto oggetto costitutivo della coscienza ontologica” (p. 276).
Che Kant e Carabellese rappresenti un lavoro importante, senz’altro da studiare, è fuor di dubbio. Nondimeno, l’interpretazione fornita da Bini, il quale nonostante tutto non mi pare mettere mai seriamente in questione la validità generale delle posizioni di Carabellese, rischia talvolta di alimentare quella lectio facilior che vede in Carabellese l’esponente della rivendicazione di un Kant “metafisico e ‘trascendente’”, lezione ancora diffusa presso importanti storici della filosofia italiana (cfr. solo a titolo di esempio anche il recente volume di M. Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia fra ottocento e novecento, Le Lettere, Firenze 2007, p. 330). Non è sufficiente, infatti, far consistere l’originalità di Carabellese nella sola riconfigurazione della nozione kantiana di noumeno. Se ci si arrestasse a questo punto l’ontologismo critico non riuscirebbe a sfuggire a quella difficoltà che fu già di Spinoza: la distinzione fra unicità dell’essere e molteplicità concreta delle sue individuazioni. Mi pare, invece, che l’autentico potenziale trascendentale del pensiero carabellesiano risieda nell’eludere il problema della differenza ontologica a partire dall’assunto per cui non si dà essere trascendente al di fuori della concreta immanenza coscienziale. In altri termini, la purezza dell’essere in sé di coscienza non potrebbe sorgere che come ‘limite’ dell’autocompenetrazione che la coscienza concreta opera di se stessa. Non è un caso dunque che questa esperienza del ‘limite’ della coscienza sia vista da Carabellese tanto nel sacrificio dell’individuo filosofante alla universalità del principio della filosofia, quanto nella religione e nel fenomeno della morte, tutte esperienze nelle quali la coscienza tenta di sopprimere la propria individualità in Dio “e la accende invece come tale” (Che cos’è la filosofia?, Roma1942, p. 159). Si potrebbe forse obiettare che un’interpretazione del pensiero di Carabellese in termini di ‘sforzo’, ‘sacrificio’, elusione della differenza ontologica tra assoluto e pensiero comporterebbe la perdita della specificità kantiana dell’ontologismo critico per farne paradossalmente una parafrasi tardiva della Wissenschaftslehre di Fichte. Sta di fatto che il confronto di Carabellese con Fichte in funzione di una radicalizzazione della posizione trascendentale di Kant va ben oltre lo schema che Bini, nelle sue rade incursioni su questo tema, mutua da schemi interpretativi, ormai consolidati, del rapporto di Carabellese con l’idealismo tedesco. Un significativo complemento della ricerca iniziata da Bini sarebbe allora uno studio altrettanto approfondito della recezione carabellesiana di altre esperienze filosofiche includibili nella sfera del trascendentalismo quali quella di Cartesio o, appunto, di Fichte. Così l’aver suggerito alcune prospettive di ricerca sulla base delle argomentazioni di Bini, più che svalutare il lavoro di quest’ultimo, rinvia criticamente all’esigenza di sviluppare gli spunti forniti da Kant e Carabellese per continuare a riflettere sull’idea di una ‘metafisica ai limiti del trascendentale’, oltre che per alimentare una diversa e più intensa fase di studio delle vicende della filosofia italiana del ‘900.

PUBBLICATO IL : 15-09-2007
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