| Più  che una vera novità nel panorama degli studi carabellesiani la monografia di  Andrea Bini, Kant e Carabellese,  rappresenta il vertice di una prospettiva di ricerca maturata già a ridosso  degli anni ’70. Nel 1969, infatti, Giuseppe Semerari alimentava l’interesse per  uno studio preciso e sistematico del rapporto Kant-Carabellese pubblicando i  corsi che quest’ultimo tenne su Kant a Roma fra il 1943 e il 1947 con il titolo La filosofia dell’esistenza in Kant.  In un libro agile ed efficace del 1988, Edm ondo  De Liguori (Il problema interno della  filosofia di P. Carabellese, Roma, Bulzoni), percorrendo una via aperta da  Emilio Garroni, presentava la lettura che Carabellese dà dei Prolegomena come il momento principale  per spiegare gli sviluppi della questione del ‘problema interno’ della  filosofia nel quadro dell’ontologismo critico. In anni ancora più recenti,  invece, Bruno Morabito (Metafisica e  teologia in Pantaleo Carabellese, Falzea, Reggio Calabria 2001) opera una  ricognizione dell’interpretazione carabellesiana della filosofia pratica di  Kant per chiarire la gestazione della prospettiva metafisica de Il problema teologico come filosofia,  l’opera forse teoricamente più rilevante del Molfettese. In ciascuno di questi  casi lo studio del dialogo critico fra Carabellese e Kant viene condotto alla  luce di interessi storico-filosofici e problemi ermeneutici ben precisi, ma non sempre con l’intenzione di  vedere nel rapporto con Kant una delle questioni strutturali per lo sviluppo  dell’ontologismo di Carabellese. Il lavoro di Bini si prefigge uno scopo  diverso. L’Autore si dispone, infatti, ad indagare il binomio Kant-Carabellese  in tutta la sua vastità teorica offrendoci anche un quadro approfondito della  complessità degli approdi filologici e delle emergenze storico-filosofiche  legate ad esso. Sicché Kant e Carabellese costituisce in primo luogo un’importante ricerca che esprime un serio  avanzamento degli studi su Carabellese. In secondo luogo, Bini ripropone una  chiave di lettura della filosofia critica con la quale anche il più raffinato  kantista è tenuto a confrontarsi ogni qualvolta intende dedicare le proprie  forze a quel problema teorico rappresentato dalla riflessione su ‘i limiti del  trascendentale’. Il libro di Bini rende giustizia, infine, ad un episodio non  trascurabile della recezione italiana di Kant e dell’intero programma della  filosofia moderna, rafforzando la convinzione che fu già di Semerari, per il  quale “Carabellese comprende il senso della filosofia moderna fuori dai  parametri a cui l’egemonia neoidealistica e storicistica aveva impresso una  circolazione forzata” (Novecento  filosofico italiano, Guida, Napoli 1988, p. 154).Ritengo  superfluo continuare a lamentare la scarsa notorietà di Carabellese al pubblico  filosofico, italiano e non, e soffermarmi eventualmente anche ad isolare le  ragioni di questo fenomeno. Questo perché l’interessante bibliografia che Bini  pone a conclusione del volume lascia intravedere come alcuni dei principali  protagonisti del novecento filosofico italiano abbiano costantemente tenuto in  considerazione la prospettiva filosofica proposta da Carabellese, vuoi per  farne un contrappeso teorico ad autonome proposte teoriche (Guzzo, Gentile), vuoi  per criticarne la programmatica inconcludenza  sublime, secondo una formula cara a Croce. Peraltro, la bibliografia curata  da Bini ci offre un quadro sintetico della storia degli studi kantiani  dell’Italia del ‘900, all’interno del quale non è difficile scorgere  espressioni di chiara attinenza agli sviluppi dell’ontologismo critico.  Dissolto dunque il sospetto che la ricerca di Bini possa in un certo senso  rappresentare uno studio di nicchia, sarà invece interessante soffermarsi sulle  questioni intorno alle quali l’Autore ci invita a riflettere.
 Volendolo  sintetizzare in una formula, il percorso di Bini esibisce il modo in cui  Carabellese, studiando Kant, trova gli strumenti linguistici e teorici  necessari per criticare gli esiti della filosofia kantiana. Di converso,  l’Autore mostra come la critica di Carabellese a Kant sia la condizione di  possibilità per il ritorno a Kant stesso sviluppandone l’implicito potenziale  metafisico. Questa impressione generale appare confermata da una rilettura  della complessa tessitura che Bini offre nel suo lavoro. L’Autore prende  infatti le mosse dai primi studi kantiani di Carabellese alla scuola di Masci  prima, e di Varisco poi. Da questi suoi maestri, però, il Molfettese si  distanzierà ben presto. Non una mera interpretazione funzionalistica  dell’apriori kantiano (Masci), né tantomeno un sacrificio del potenziale  gnoseologico del criticismo a vantaggio della ricerca di Dio o dell’ostinato  sforzo di offrire una giustificazione razionale del teismo, come accade invece  nei Massimi problemi diVarisco. Carabellese intende,  piuttosto, e fin dalla Critica del  concreto (1921), porre l’accento sul valore metafisico della singolarità  molteplice (p. 23). Il molteplice che si dà nella relazione conoscitiva fra  soggetto e oggetto, secondo Carabellese,   non deve esaurirsi nella sua dimensione fenomenica. Esso deve  presentarsi vieppiù come espressione di quel nesso di individuazione fra  soggetto e oggetto che forma la concretezza della coscienza. Si noti però che  questo processo di ripensamento di alcuni elementi del neokantismo italiano, e  in questo caso soprattutto della nozione di ‘concrescenza’ elaborata da Masci a  cui Bini non mi pare dedicare sufficiente attenzione, non si traduce in un  episodio di degenerazione speculativa di quegli assunti che avevano determinato  le più vaste sorti del neokantismo tedesco (rapporto della filosofia critica  con le scienze, interpretazione psicologica delle strutture a priori, avvio di  una filologia kantiana). Né si deve credere che la traduzione carabellesiana  del kantismo nel progetto di una “metafisica critica” possa essere ridotta a  torsione metodologica dell’hegelismo – o dell’attualismo gentiliano – svuotata  di ogni fisionomia speculativa e identificabile con una forma “arcaica” di  trascendentalismo dal sapore quasi pre-critico, come sembra talvolta lasciar  intendere Abbagnano. Carabellese tenta, invece, di lavorare ai margini del  ‘trascendentale’ in vista di una radicalizzazione di quest’ultimo, da ottenersi  mediante una critica serrata del linguaggio e della concettualità della  tradizione filosofica occidentale. L’“oggetto puro” a cui Carabellese si  riferisce non ha infatti il carattere di un in sé presupposto, o contrapposto,  ad un soggetto precostituito. L’“oggetto puro” è noumeno, cioè istanza sovrasensibile implicita nel soggetto, che eccede  rispetto a quest’ultimo ma che, al contempo, sancisce la concretezza del soggetto stesso, intesa come unità di sensibile ed  intelligibile, teoria e prassi, immanenza e trascendenza. Dal punto di vista  gnoseologico, il riferimento all’oggetto puro rappresenta la garanzia per la  formulazione di giudizi dotati di validità universale (p. 70). Dal punto di  vista pratico, invece, il riferimento al noumeno consente di pensare  compiutamente l’autonomia della libertà e di legittimare le istanze metafisiche  della ragione, che Kant esprimeva sotto forma di postulati della ragione  pratica (Dio, libertà, immortalità, pp. 209-211). Bini spiega come il pensiero  di Kant svolga una duplice funzione rispetto a questi assunti di base  dell’ontologismo critico. Da una parte, proprio perché non giunge ad una  efficace critica linguistico-concettuale della tradizione filosofica, Kant  scambia dogmaticamente il noumeno con una cosa in sé esterna al soggetto,  alimentando in questo modo quella perversione della filosofia moderna che rende  la cosa materiale l’unico obiettivo e il vero banco di prova del conoscere.  Dall’altra, però, il grande merito di Kant sarebbe, secondo Carabellese, quello  di aver mostrato, con l’affermazione della noumenicità dell’essere in sé, che  la destinazione della ragione umana non si esaurisce nella esperienza  fenomenica. L’“accorgimento critico della finitezza” della ragione (p. 48)  conduce quest’ultima a comprendere che il noumeno non è un semplice oggetto che  può essere consaputo, ma è un termine che deve essere incluso nello stesso sapere come cifra che lo rende immune da ogni  relativismo scettico. La disposizione di questi elementi teorici crea lo sfondo  su cui l’Autore costruisce la propria accurata indagine che privilegia la  lettura che Carabellese offre della filosofia pratica di Kant e in particolare  della Fondazione, tradotta e  commentata ampiamente nel 1936. Tramite l’affermazione della noumenicità  dell’essere in sé Carabellese ritiene impossibile ridurre la critica kantiana  ad una gnoseologia. La ragione critica, consapevole della sua tendenza verso  l’incondizionato, e insieme dei propri limiti speculativi, “scorge l’orizzonte  del vero essere noumenico come campo suo proprio e può vedere così nella morale”  una via sicura per raggiungere quel sovrasensibile che invano cercava di  attingere mediante il conoscere (p. 60). Il privilegiamento dell’analisi della  morale kantiana da parte di Carabellese, messo in luce da Bini fin dal primo  dei sei capitoli di cui si compone il volume, consente all’Autore di svolgere  un’analisi serrata degli aspetti epistemologici della Critica a partire dalla discussione della III Antinomia (Cap. II).  Lo studio di questo importante locus kantiano lascia emergere, da una parte, le basi per una indagine più  approfondita della interpretazione kantiana del concetto di libertà (Cap. III)  e, dall’altra, una ridiscussione del problema della trascendenza che si serve  dell’analisi della dialettica del Sommo Bene (Cap. IV). Anche in questi casi la  difficoltà di Kant rimarrebbe, secondo Carabellese, la medesima: Kant non  riuscirebbe a comprendere che il principio del concreto (Dio) non trascende  semplicemente il concreto stesso ma deve essere piuttosto immanente ad esso e  riflettere quel nesso di individuazione dell’oggetto nel soggetto già  considerato in precedenza. Di conseguenza, e in un ambito di più stretta  pertinenza della ragione pratica, ogni distinzione fra soggetto e oggetto,  secondo Carabellese, non potrebbe che ricondurre le verità della morale alla  religione. Ciò comporterebbe, tuttavia, la formazione di un’etica  sostanzialmente eteronoma, nell’orizzonte della quale ogni aspirazione  metafisica della coscienza rimarrebbe frustrata in un acritico dogmatismo (p.  176). La purezza dell’etica kantiana, il valore fondante della libertà e il  significato della concretezza di coscienza, quale campo di immanenza per il  rivelarsi di Dio nella sua trascendenza, trasfigurerebbero così in un vuoto  arbitrio, in una morale soggettiva e in una etica del successo à la Hegel. Particolarmente interessante  per l’approfondimento di questi nodi problematici è il modo in cui Bini, nel  Cap. V, discute la critica di Carabellese ai Paralogismi. La trattazione dell’idea psicologica non deve  riguardare - sostiene Carabellese - la sola questione della realtà dell’io come  sostanza semplice, bensì rinviare ad una analisi della costituzione ontologica  del pensare (p. 219). L’io deve rappresentare, nel quadro dell’ontologismo  carabellesiano, non un soggetto presupposto ma il concretizzarsi individuale  dell’oggetto puro nel soggetto. Quest’ultimo non può essere veramente tale –  cioè cosciente di sé – se non come coscienza della infinita virtualità dell’oggetto medesimo. Dopo  aver chiarito la questione dell’autocoscienza, Bini può stringere il cerchio  delle sue analisi e legittimare la propria chiave di lettura che tende a vedere  il pensiero di Carabellese come un orientarsi progressivo verso un “rigido  oggettivismo che cercherà una conciliazione fra criticismo e ontologismo  spinoziano, ciò che Kant volle escludere per tutta la vita” (p. 115). La  descrizione di questo procedere con Kant oltre Kant ‘via Spinoza’ rende  possibile, infatti, un penetrante bilancio della sostenibilità dell’ontologismo  critico, che Bini suggella, nel Cap. VI, sintetizzando la posizione di  Carabellese come una “correzione del criticismo in un immanentismo  oggettivistico dal carattere profondamente spinoziano” che rifiuta “l’ingenuo  teismo antropomorfico della religione rivelata” (p. 268). Proprio sottolineando  questa emendatio del criticismo  nell’ontologismo critico Bini chiude coerentemente il suo percorso con una  diffusa discussione del ripensamento carabellesiano del Weltbegriff di filosofia descritto da Kant. In tale contesto la  critica a Kant e il profilarsi della nozione carabellesiana di filosofia come  ‘supremo sforzo di riflessione spirituale’ si fondono nella felice sintesi per  cui la riforma del criticismo nell’ontologismo critico si configura come un  rimettere in atto le esigenze proprie del criticismo medesimo nelle sue istanze  più profonde. Questo significa, in ultima analisi, riproporre, senza tener  conto delle derive fichtiano-hegeliane, “la prima luminosa intuizione  dell’incondizionato come assoluto oggetto costitutivo della coscienza ontologica”  (p. 276).
 Che Kant e Carabellese rappresenti un lavoro  importante, senz’altro da studiare, è fuor di dubbio. Nondimeno,  l’interpretazione fornita da Bini, il quale nonostante tutto non mi pare  mettere mai seriamente in questione la validità generale delle posizioni di  Carabellese, rischia talvolta di alimentare quella lectio facilior che vede in Carabellese l’esponente della  rivendicazione di un Kant “metafisico e ‘trascendente’”, lezione ancora diffusa  presso importanti storici della filosofia italiana (cfr. solo a titolo di  esempio anche il recente volume di M. Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia fra ottocento e  novecento, Le Lettere, Firenze 2007, p. 330). Non è sufficiente, infatti,  far consistere l’originalità di Carabellese nella sola riconfigurazione della  nozione kantiana di noumeno. Se ci si arrestasse a questo punto l’ontologismo  critico non riuscirebbe a sfuggire a quella difficoltà che fu già di Spinoza:  la distinzione fra unicità dell’essere e molteplicità concreta delle sue  individuazioni. Mi pare, invece, che l’autentico potenziale trascendentale del  pensiero carabellesiano risieda nell’eludere il problema della differenza  ontologica a partire dall’assunto per cui non si dà essere trascendente al di  fuori della concreta immanenza coscienziale. In altri termini, la purezza  dell’essere in sé di coscienza non potrebbe sorgere che come ‘limite’  dell’autocompenetrazione che la coscienza concreta opera di se stessa. Non è un  caso dunque che questa esperienza del ‘limite’ della coscienza sia vista da  Carabellese tanto nel sacrificio dell’individuo filosofante alla universalità  del principio della filosofia, quanto nella religione e nel fenomeno della  morte, tutte esperienze nelle quali la coscienza tenta di sopprimere la propria  individualità in Dio “e la accende invece come tale” (Che cos’è la filosofia?, Roma1942, p. 159). Si potrebbe forse  obiettare che un’interpretazione del pensiero di Carabellese in termini di  ‘sforzo’, ‘sacrificio’, elusione della differenza ontologica tra assoluto e  pensiero comporterebbe la perdita della specificità kantiana dell’ontologismo  critico per farne paradossalmente una parafrasi tardiva della Wissenschaftslehre di Fichte. Sta di  fatto che il confronto di Carabellese con Fichte in funzione di una  radicalizzazione della posizione trascendentale di Kant va ben oltre lo schema  che Bini, nelle sue rade incursioni su questo tema, mutua da schemi  interpretativi, ormai consolidati, del rapporto di Carabellese con l’idealismo  tedesco. Un significativo complemento della ricerca iniziata da Bini sarebbe  allora uno studio altrettanto approfondito della recezione carabellesiana di  altre esperienze filosofiche includibili nella sfera del trascendentalismo  quali quella di Cartesio o, appunto, di Fichte. Così l’aver suggerito alcune  prospettive di ricerca sulla base delle argomentazioni di Bini, più che  svalutare il lavoro di quest’ultimo, rinvia criticamente all’esigenza di  sviluppare gli spunti forniti da Kant e  Carabellese per continuare a riflettere sull’idea di una ‘metafisica ai  limiti del trascendentale’, oltre che per alimentare una diversa e più intensa  fase di studio delle vicende della filosofia italiana del ‘900.
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