Nell’estate dell’anno 1638, ormai al tramonto della sua vita, Campanella raccolse in poche righe rivolte al Granduca Ferdinando II De’ Medici le linee di un destino segnato dalle persecuzioni e dalla fedeltà alla propria missione: «Il secolo futuro giudicarà di noi, perch’il presente sempre crucifige i suoi benefattori; ma poi risuscitano al terzo giorno, o l’terzo secolo». A un passo ormai dal compiersi del quarto secolo dalla morte, la profezia di Campanella è sul punto di rivelarsi vana, visto che il suo pensiero rimane sostanzialmente un monstrum nei manuali di filosofia, e la sua opera più celebre resta quella Città del Sole che nell’intenzione dell’autore non ambiva di certo al rango di opera capitale. Eppure nessun pensatore esprime in maniera più completa l’enigma del Rinascimento, la testa bifronte di un’epoca capace di guardare allo stesso tempo verso l’alchimia e la fondazione di una scienza quantitativa. La pubblicazione dell’epistolario di Campanella, a cura di Germana Ernst per la collana della Olschki “Le Corrispondenze letterarie, scientifiche ed erudite dal Rinascimento all’Età Moderna” (2010), può allora essere un passo verso una comprensione più originaria di questo filosofo e della sua posizione nella storia del pensiero, nella misura in cui contribuisce alla conoscenza dei suoi scritti, in massima parte irreperibili, e getta luce sullo spirito che anima la sua opera.
Sebbene il pensiero di Campanella si mostri in queste lettere solo per cenni, esse hanno il pregio di restituirci un’immagine viva di lui e di quell’epoca della storia italiana che vide il lume del Rinascimento venir soffocato dall’oppressione straniera e dalla petulanza dell’Inquisizione. Attraverso la trama delle lettere si mostrano infatti in controluce le vicende avventurose della vita di Campanella: l’adesione al pensiero di Telesio, il precoce interesse manifestato dall’Inquisizione nei suoi confronti e infine l’ingiunzione da parte dei superiori a far ritorno ai luoghi di origine, sono il preludio agli eventi del 1599, che lasciano il loro segno nell’epistolario con un silenzio lungo sette anni. Campanella, accusato di essere l’ispiratore di una congiura che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, viene arrestato e processato, riuscendo ad avere salva la vita solo attraverso la simulazione della follia, riconosciutagli legalmente dopo trentasei ore di terribile tortura. Venne nondimeno condannato al carcere perpetuo, che scontò inizialmente in condizioni durissime.
A partire dal 1606 tuttavia condizioni di reclusione mitigate consentirono a Campanella di riprendere contatto epistolare con il mondo fuori dal carcere. Molte lettere di questo periodo sono memoriali indirizzati al papa Paolo V, ai cardinali, al re di Spagna, all’imperatore Rodolfo II, in cui Campanella ripercorre gli avvenimenti che hanno portato alla sua incarcerazione cercando di mostrarsi nella luce migliore, «[…] protestandosi che non deve muorire un uomo che puol esser utilissimo alla republica cristiana […]» (p.167). Le lunghe liste di «utilità grandissime» (ibid.) che egli vorrebbe mettere a servizio del papa e dei principi richiamano alla memoria la celebre lettera in cui Da Vinci offriva a Ludovico il Moro i suoi servigi, mostrandosi in primo luogo come ingegnere militare e lasciando da ultimo, nell’eventualità che potesse sopravvenire un tempo di pace, le sue doti di architetto, scultore e pittore. Allo stesso modo Campanella promette artifici per far viaggiare i vascelli senza remi né vento, per far muovere i carri sulla terra con le vele e perfino un modo di lasciare libere dalle briglie le mani dei soldati a cavallo, di far aumentare le entrate del regno e di «… fabbricare una città salubre e inespugnabile, con tal artificio, che solo mirandola s’imparino tutte le scienze istoricamente» (p.168).
Accanto a queste promesse, che quasi colorano l’immagine del filosofo con la versatilità del genio rinascimentale, i libri già scritti e quelli ancora da scrivere vengono compresi nel progetto di una controffensiva al triplice attacco dell’Anticristo, palesatosi secondo Campanella nelle figure di Maometto, Lutero e Machiavelli. È per combattere contro questa minaccia che egli, insinuando il sospetto che la sua stessa prigionia sia una manovra dell’avversario, chiede di essere tirato fuori dal carcere, fino a scrivere con lapidaria prosa al cardinale Barberini: «Io sono il can di Santa Chiesa, e voglion che stia al buio, perché paia lupo» (p.294). La cristianità appare infatti a Campanella come dilaniata da questi tre morbi, che infettano rispettivamente l’oriente, il settentrione e le ultime province cattoliche, vale a dire Italia e Spagna. Per Campanella Maometto e Lutero adorano lo stesso dio «predestinante al bene e al male a capriccio e a forza» (p. 244). Perfino all’interno della Chiesa di Roma la negazione del libero arbitrio ha potuto trovare asilo grazie alle tesi dell’Alvarez, che Campanella censura in lunghi e puntigliosi elenchi. A Machiavelli tocca invece la responsabilità di avere introdotta nel mondo quella ragion di Stato che «ha per massima di stimare la parte più del tutto e se stessi più della specie umana, più del mondo e più di Dio» (p. 572), da cui discende inevitabilmente il corollario che la religione non sia se non uno strumento per l’esercizio del potere.
Ma oltre le figure di Lutero e Machiavelli si staglia l’ombra di Aristotele: «E in verità la mala erba del nostro secolo sono state le tesi aristoteliche dell’eternità del mondo e della mortalità delle anime - una sola per lui è immortale -, la schernita credenza nell’Inferno, nel Paradiso e nel Purgatorio [...], la negazione della provvidenza individuale» (p. 539). L’opposizione ad Aristotele non pregiudica d’altra parte la devozione che Campanella tributa al pensiero di Tommaso d’Aquino, in quanto l’opera dell’Aquinate viene vista da lui come un tentativo di emendare i tratti anticristiani dell’aristotelismo, prevalenti invece nell’interpretazione averroistica: «perché non avrebbe dovuto essere concesso a san Tommaso di valersi dell’aristotelismo a buon fine, per quanto era possibile?» (p. 589) Al proprio tentativo di fondare una metafisica integralmente nuova, in grado di dirigere le scienze senza soffrire i condizionamenti della paganità, Campanella collega la sua disgrazia presso l’Inquisizione in una lunga lettera indirizzata al papa Paolo V e ai cardinali di Roma: «Ecco, Padre santo, come questo Aristotele mi rovinò in seno al mio ordine, ponendomi sempre in cattiva luce: è stato in grazia sua che i prelati di santa chiesa mi hanno preso in odio» (p. 540).
La pubblicazione del Sidereus Nuncius di Galilei nel 1611 viene dunque salutata con entusiasmo da Campanella, che vede in essa la fine del predominio aristotelico sulla fisica. Nonostante la profonda distanza che lo separa da Galilei, Campanella si adopererà in tutti i modi perché venga riconosciuta la dignità della conoscenza scientifica, che ai suoi occhi non ha bisogno di venir subordinata all’autorità della Scrittura, poiché trova immediato fondamento nell’origine divina della natura. Dopo l’uscita del Dialogo sui Massimi Sistemi (1632), ormai tradotto dalle carceri napoletane a quelle dell’Inquisizione romana, Campanella scrive a Galilei della cattiva accoglienza riservata al Dialogo, e gli propone di far richiedere al Granduca che vengano nominati come difensori il padre Castelli e lui stesso. La proposta verrà respinta dal tribunale e Campanella chiuderà il suo carteggio con Galilei con accenti di profonda tristezza: «Io vedo che, quanto più ci sforzamo a manifestarci amici e servi de’padroni, tanto più si studiano di mostrare il contrario gli altri ecc. Dio consoli vostra signoria eccellentissima e tutti noi» (p. 345).
Sempre nel periodo romano (1626-1634) Campanella entra in relazione con i letterati francesi e gli ambienti che gravitano attorno all’ambasciata di Francia a Roma: appartengono a questo periodo lo scambio epistolare con Mersenne e quello con Gassendi, di cui Campanella loda le posizioni antiaristoteliche, pur ritenendo la soluzione atomistica insoddisfacente rispetto a una comprensione della finalità nella natura. Attraverso questi contatti Campanella riesce finalmente a suscitare intorno a sé un ambiente favorevole che si mostrerà determinante quando, nel 1634, un suo discepolo verrà accusato di aver ordito una congiura antispagnola, aggravando ancora una volta la posizione del maestro. La notte del 21 Ottobre, con l’approvazione del papa, travestito da frate minimo e sotto falso nome, Campanella fugge da Roma alla volta della Francia, nell’estremo tentativo di spezzare le catene che lo avevano tenuto prigioniero per trentacinque anni: a Nicolas Fabris de Peiresc, il colto gentiluomo che lo accoglierà di là dalle Alpi, scriverà: «[…] io son venuto in Francia per cercar libertà, e parteciparla dove la trovo, assai sitibondo dopo tanti guai, privato di quella» (p. 420). In un paese non soggiogato dalle ossessioni dell’Inquisizione e fiero della sua «libertà francese» Campanella può infine trovare quel riconoscimento che gli è stato a lungo negato, e che con orgoglio pari solo al candore verrà immediatamente comunicato ad Urbano VIII: «Ho parlato al re Cristianissimo con gran gusto di Sua Maestà e gloria di Vostra Beatitudine; e mi si fè incontro, m’abbracciò due volte, e ridea insieme e mostrava compassion grande di me, né mai si pose in testa cosa di coprirsi, e più volte mi disse “Tres ben venù”; che mi riceve in sua protezione e sicurtà e che non mi farà mancar cosa alcuna. E tutti principi, che eran presenti, restaro ammirati e dissero ch’a nissun personaggio grandissimo il Re ha fatto mai tanto onore quanto a me, servo di Vostra Beatitudine» (p. 377). A Luigi XIII Campanella invia tra l’altro una bellissima epistola in cui lo invita a non piegarsi ad un umiliante trattato di pace e lo esorta a liberare il mondo dalla tirannia della Spagna, mal celando dietro l’esaltazione della missione storica del regno di Francia il fuoco di quella passione che lo aveva condotto, ancora giovane, nelle carceri del Viceregno. Grandissima ammirazione viene espressa d’altra parte nei confronti del cardinale Richelieu, al quale, nell’epistola dedicatoria del De sensu rerum, Campanella non si perita di assegnare la somma carica di Metafisico della Città del Sole da lui stesso ideata. Gli anni di Parigi, gli ultimi della vita di Campanella, saranno dedicati soprattutto alla predicazione negli ambienti nobiliari («tengo all’amo di S. Pietro pesci grossissimi» scrive Campanella ad Urbano VIII) e alla pubblicazione delle proprie opere.
Nell’edizione di questo epistolario Germana Ernst si è avvalsa dei materiali preparatori approntati da Luigi Firpo in vista di un’edizione integrale degli scritti di Campanella mai andata in porto, e di alcune lettere da lei stessa recuperate, tra cui va ricordata almeno la bellissima epistola proemiale all’edizione italiana dell’Ateismo trionfato. Rispetto all’edizione di Spampanato (Milano, 1927), fino ad ora la più completa, quella della Ernst si mostra accresciuta di 36 lettere. Il volume è corredato da un agile apparato di note e dalla traduzione italiana delle epistole in latino a mano di Firpo. Un’ultima osservazione: per chi voglia approfondire la conoscenza di Campanella, un ostacolo non piccolo è rappresentato dal fatto che l’opera che egli considerò come summa del suo pensiero, a stento ormai si può trovare in qualche biblioteca. Se si esclude l’edizione per la Levante Editori dei libri I (1994) e VI (in stampa) curata da Polo Ponzio e del libro XIV (2000) a cura di Teresa Rinaldini, l’ultima edizione della Metaphysica di Campanella, peraltro parziale, risale infatti al 1967, a cura di Di Napoli per Zanichelli. Non sono forse maturi i tempi perché questa opera sia finalmente accessibile? |