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Francesco Saverio Trincia, Husserl, Freud e il problema dell’inconscio , Morcelliana, 2008
di Federica Buongiorno

«La filosofia, se per filosofia s’intende non tanto la tradizione filosofica in senso stretto (che pure in parte Freud conosceva: Aristotele, Platone, Nietzsche, Schopenhauer, Kant) ma il pensiero filosofico, la concettualità, non è qualcosa che dialoga con la psicoanalisi ma è interna alla psicoanalisi. Il dialogo c’è soltanto se uno si dedica all’operazione vagamente inutile ed anche inutilmente drammatizzante di polarizzare quello che non è polarizzabile né in termini storici né in termini teorici: non c’è soltanto un contenuto concettuale comune […] ma c’è l’internità della dimensione del pensare ad una scienza che non è filosofica e che tuttavia del pensare considerato nella sua componente pura (ciò che noi chiamiamo nel nostro linguaggio filosofia) non può fare a meno e di fatto non fa a meno. Da questo credo si dovrebbero prendere le mosse per riprendere poi la questione di che cosa oggi si debba dire di questo che non è, ripeto, un dialogo tra poli ma è una sorta di auto-riflessione della psicoanalisi su se stessa e della filosofia su se stessa, essendo però psicoanalisi e filosofia co-originariamente appartenentisi».

Queste affermazioni, rese da Francesco Saverio Trincia nell’ambito di un dialogo con Luigi Aversa sul rapporto tra filosofia e psicoanalisi (Cfr. S. Pietroforte, Filosofia e psicoanalisi. Possibilità e necessità di un dialogo. Intervista a Luigi Aversa e Francesco Saverio Trincia, p. 3, pubblicato su www.filosofiaitaliana.it nel maggio 2007), potrebbero figurare come presupposto teorico generale dell’intera riflessione che Trincia sviluppa nel suo ultimo libro: si tratta della convinzione che la “scoperta” freudiana dell’inconscio introduca nel campo del pensiero sul soggetto (e parimenti del soggetto) una sollecitazione, se non addirittura un’obiezione, di portata non trascurabile e che, anzi, chiama ad un confronto non più eludibile sulla base di una mera divisione dei rispettivi campi d’indagine, ormai ampiamente superata dalle più recenti conquiste teoriche (basti pensare agli sviluppi della cosiddetta filosofia della mente o dei contemporanei modelli epistemologici in psicologia). Come già Husserl mostrava di aver compreso nella Crisi delle scienze europee, sempre più la psicologia si viene determinando come il vero e proprio «campo delle decisioni» (Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, § 58,  il Saggiatore, 2002), un campo che coincide con la stessa Lebenswelt del soggetto trascendentale e che si apre non appena si abbia avuto accesso alla sfera fenomenologica, all’interno della quale l’io trascendentale non può mai dimenticare la propria controparte empirica ed è anzi chiamato a deciderne, facendo così della psicologia stessa la modalità metaforica attraverso cui questa decide di sé nel suo essere motivata dalla soggettività universale, quel Boden che la fenomenologia le svela quale suo autentico fondamento. La psicologia assurge così al «campo in cui si decide della soggettività, perché suo tema è quella soggettività che come uno Zwischen rende possibile il trapasso verso la determinazione dei suoi diversi significati» (F.S. Trincia, Husserl, Freud e il problema dell’inconscio, Morcelliana, Brescia, 2008). Filosofia (fenomenologia) e psicologia sono dunque in rapporto essenziale tra loro, come due comprensioni dello stesso rapporto, quello tra io trascendentale e io naturale. Leggiamo al riguardo parole molto chiare da parte di Husserl nel paragrafo 58 della Crisi delle scienze europee:

«Tuttavia la psicologia e la filosofia trascendentale sono apparentate inscindibilmente e in un modo del tutto peculiare – nel modo, che per noi non è ormai più enigmatico, della differenza e dell’identità dell’io psicologico (cioè umano, disposto nella dimensione del mondo spazio-temporale) e dell’io trascendentale, della vita e dell’operare egologico» (E. Husserl, op. cit., p. 229).

Sembra sempre più urgente la necessità di operare un confronto sistematico con il campo della psicologia, sia in direzione retrospettiva, riferita ai rapporti intrattenuti da Husserl con la psicologia invalsa al suo tempo (non solo con gli antecedenti brentaniani ma anche più in generale collocando la riflessione husserliana nel contesto delle teorie associazionistiche diffuse all’epoca, tanto quelle con le quali egli apertamente polemizzò,  quanto quelle che gli offrirono materiale e spunti concettuali), sia in direzione progressiva, rivolta cioè alle più recenti interpretazioni del pensiero husserliano negli ambiti delle ultime teorie in campo psicologico. Se nella prima direzione gli studi non mancano, nella seconda essi sono attualmente in fase di forte crescita (si veda, a titolo esemplare, il volume di recentissima uscita a cura di Massimiliano Cappuccio, significativamente intitolato Neurofenomenologia. Le scienze della mente e le sfide dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, 2008) e rappresentano sollecitazioni non semplicemente ignorabili, soprattutto in quanto facenti spesso leva su letture assai spregiudicate quando non deformanti del pensiero husserliano, che tuttavia hanno dalla loro la forza di evidenze scientifiche sempre più comprovate: accenni ad un confronto con teorie di questo tipo non mancano nel volume di Trincia (basti pensare alla discussione delle tesi sostenute da Pascal Engel nel suo libro del 1996, edito in Italia nel 2000, intitolato Filosofia e psicologia), ferma restando la dichiarazione della propria indisponibilità sostanziale – dettata appunto da una volontà di non deformazione del pensiero husserliano – «a leggere Husserl nella prospettiva offerta dalla filosofia analitica e dalla relativa marginalità che vi si assegna alla problematica egologica» (F.S. Trincia, cit., p. 7).
Come lo stesso Trincia evidenzia, assumere questo punto di vista, ovvero porsi dalla prospettiva della co-appartenenza di filosofia e psicologia (specificamente declinata, quest’ultima, nel senso della psicoanalisi), implica nel contempo un’assunzione di responsabilità filosofica radicale che risiede nella consapevolezza del valore di opzione teorica del punto di vista assunto, tanto più bisognoso di fondazione e di rigorosa argomentazione quanto meno è inteso come un ovvio presupposto:

«è un’opzione filosofica e non psicoanalitica, è cioè una scelta di tipo filosofico e non di tipo scientifico nel senso della scienze esatte, il dire che filosofia e psicoanalisi sono intimamente collegate. Non c’è nulla di ovvio e oggettivo in questo, assolutamente nulla; come assolutamente nulla di ovvio e di oggettivo c’è nel pensiero, quale che sia il suo ambito di svolgimento» (S. Pietroforte, cit., p. 6).

Posta in questi termini la cornice interpretativa generale, appare inevitabile che il punto di partenza della riflessione svolta da Trincia in questo libro sia costituito, al capitolo primo, dal rapporto e dal vero e proprio intreccio tra io trascendentale e io psicologico come campo entro il quale è possibile tentare una certa (fenomenologica) collocazione dell’inconscio, sulla base della tesi generale «dell’inseparabilità dell’inconscio dal soggetto cosciente, inconscio che non è rispetto a quest’ultimo un estraneo totale, mentre è piuttosto un estraneo familiarmente legato nel senso della Heimlichkeit-Unheimlichkeit» (F.S. Trincia, cit., p. 11). Ci sembra che l’analisi del rapporto tra io trascendentale e io psicologico assuma la valenza preliminare di affermare, descrivendone per così dire lo “spazio di articolazione”, da un lato la possibilità di pensare l’inconscio dalla parte della coscienza, dall’altro il modo (anzi, i modi) in cui esso effettivamente incontra la propria collocazione all’interno di questo Zwischen. Trincia individua infatti due modalità di costituzione fenomenologica dell’inconscio: la prima è data dalla temporalità di coscienza e, particolarmente, dal rapporto tra ritenzione e ora impressionale (oggetto d’indagine nel secondo capitolo), la seconda è rappresentata dall’intenzionalità passiva di cui Husserl tratta nelle Lezioni sulla sintesi passiva (oggetto del terzo capitolo). Entrambe queste modalità affondano le proprie radici nell’articolato rapporto tra io trascendentale e io empirico e si ricongiungono, come risulterà alla fine dell’indagine, proprio nel riconoscimento della legalità temporale come necessaria struttura dell’articolarsi tanto della coscienza quanto di ciò che chiamiamo inconscio, e che dunque viene a rappresentare la ricercata sutura tra le due nozioni in gioco: è per questa via che «si viene delineando chiaramente un’ipotesi interpretativa ontologico-temporale della nozione dell’inconscio, sulla base e anche come conseguenza di una radicale ridefinizione della soggettività» (Ivi, p. 14).
Trincia muove dunque dalla distinzione-implicazione di io trascendentale ed io psicologico, per spiegare in primo luogo la possibilità di pensare fenomenologicamente l’inconscio, per delinearne – volendo usare quest’espressione efficace ma impropria per via del riferimento alla spazialità – lo spazio di articolazione. E’ noto come Husserl abbia strutturato tale rapporto in quei termini di paradossalità strutturale che il paragrafo 53 della Crisi delle scienze europee esemplarmente compendia: «la soggettività è un oggetto nel mondo e insieme è un soggetto coscienziale per il mondo» (E. Husserl, op.cit., p. 207). Al discorso husserliano è essenziale che i due versanti dell’io non vengano assunti come irrelati tra loro, poiché il senso della riduzione trascendentale attraverso cui accediamo alla sfera della soggettività pura non consiste in un annullamento della dimensione empirica quanto piuttosto nella sua legittimazione fenomenologica, mediante cui l’ovvietà del dato viene riguadagnata su un piano di autentica significatività: in questo senso la fenomenologia è un vero esercizio di stupore filosofico, una sorta di ritorno al movente classico del pensiero e della riflessione. Si tratta peraltro di una movenza particolarmente evidente nelle lezioni husserliane Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, che si aprono appunto con la messa fuori circuito del tempo obiettivo e si chiudono con la spiegazione della costituzione fenomenologica dello stesso tempo obiettivo – resa possibile dall’aver percorso fino in fondo la via dell’epoché. L’apporto originale dell’interpretazione di Trincia a questa tematica del paradosso della soggettività, funzionale ad una declinazione fenomenologica dell’inconscio, consiste nel vedere all’interno del rapporto tra io trascendentale e io psicologico uno squilibrio o, meglio, un’asimmetria in favore del trascendentale: vi è una sorta di «eccedenza del trascendentale» che permette a quest’ultimo di realizzarsi in una autodonazione dell’ego puro (il riferimento è chiaramente alle tesi sostenute da Jean-Luc Marion), in virtù della quale «l’io psicologico deve essere visto retrospettivamente dall’io puro trascendentale come oggetto intenzionato inscindibile dal fenomeno originario dell’io» (F.S. Trincia, cit., p. 24). Si tratta di una peculiare interpretazione del rapporto tra le due dimensioni dell’io, per lo meno nella misura in cui Husserl intende tale rapporto nei ben noti termini, ricordati dallo stesso Trincia, del “parallelo”: l’io trascendentale non è un secondo io rispetto a quello naturale né è da questo separato in senso letterale, ma è «mediante una semplice variazione dell’atteggiamento» che siamo in grado di passare dall’uno all’altro. I due versanti dell’io sono così posti su uno stesso piano di significatività, che però Trincia trasforma in una eccedenza del trascendentale in quanto considera il parallelo stesso come trascendentale, così che l’oggettivazione psicologica diviene visibile come una auto-oggettivazione dell’io trascendentale: nella misura in cui Husserl sembra intendere l’io psicologico ingenuo come una «modalità difettiva del trascendentale», ovvero come «lo stesso io trascendentale, nel modo dell’occlusione ingenua» (Ivi, p. 58), l’operazione di Trincia si configura come del tutto legittima.
Ma in che modo la delineazione del rapporto tra io trascendentale e io psicologico come eccedente dal lato del trascendentale apre un campo di articolazione per un «inconscio vissuto» o fenomenologico? Ci sembra che la risposta emergente dallo sviluppo del pensiero di Trincia sia riassumibile in questi termini: sono i modi stessi in cui l’inconscio si articola fenomenologicamente che riconfermano lo Zwischen come campo d’articolazione dell’inconscio vissuto, e che ne concretizzano la fisionomia nel momento stesso in cui la presuppongono come principio, appunto per potersi dare come “modalità di”. Vi sarebbe insomma un gioco di reciproca legittimazione tra il principio teorico che offre lo spazio per l’inconscio, e le modalità dell’inconscio stesso, che traducono quel principio, altrimenti vuoto, sul piano dell’effettività fenomenologica: l’argomentazione assume così una traiettoria circolare e non è un caso che il volume si chiuda riprendendo il problema di partenza, ovvero il paradosso della soggettività.
Appare così fondato il passaggio alla trattazione (nei capitoli secondo e terzo) delle due modalità di articolazione fenomenologica dell’inconscio individuate da Trincia, che molto chiaramente ribadisce l’opzione teorica – cui già accennavamo all’inizio – su cui poggia l’argomentazione sostenuta: si tratta per l’appunto della «decisione di non considerare affatto ovvia la tesi della inconciliabilità di principio dell’atteggiamento fenomenologico con l’inconscio freudiano» (Ivi, p. 61). La prima modalità fa riferimento alla struttura della temporalità di coscienza e al rapporto tra ritenzione e ora impressionale: l’interpretazione si appoggia qui alle lezioni Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, dove l’argomentazione husserliana porta all’affermazione della necessità della struttura ritenzionale per il darsi stesso della coscienza, tanto da poter affermare una sorta di equazione tra coscienza e ritenzione. La domanda che inevitabilmente Husserl pone in campo, a partire dall’insorgere di ogni fase iniziale dei decorsi temporali che di volta in volta giungono a datità, consiste nel chiedersi se, data quell’equazione, la fase iniziale venga essa stessa appresa ritenzionalmente oppure se sia inconscia, non mediata dalla ritenzione. Esiste qualcos’altro alle spalle della ritenzione e se sì, posto che non si può parlare di ritenzione senza coscienza (e viceversa), di cosa si tratta? Qui Trincia solleva un punto fenomenologico di estrema difficoltà, come ha già analiticamente dimostrato Alessandra Penna nella sua tesi di dottorato (Cfr. Alessandra Penna, La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana (1917/18 – 1929-34), il Mulino, 2007): al livello delle Vorlesungen del 1904-05 Husserl ha indubbiamente un “problema” rispetto al così detto punto-ora nel suo legame con la ritenzione. Di che rapporto si tratta? E’ una relazione di mediazione? O si tratta di una differenza astrattiva? Le due alternative, che rappresentano i due poli tra i quali la riflessione husserliana oscilla nel 1904-05 senza assumere una posizione definitiva (che per certi versi, come sottolinea A. Penna prendendo in esame anche la riflessione husserliana posteriore, non verrà assunta nemmeno dopo e resta di fatto aporetica) equivale ad una alternativa, fenomenologicamente problematica, tra coglimento effettivo dell’ora nel suo carattere di originarietà e perdita di tale carattere in favore della sua fissazione concettuale: si apre qui il grande problema dei rapporti, nel pensiero husserliano, tra intuizione e astrazione riflessiva. Husserl tiene qui fermo, comunque, all’assunto per cui «coscienza è necessariamente esser-conscio in ciascuna delle sue fasi» (F.S. Trincia, cit., p. 69), per cui il problema del divenir conscio di qualcosa di inconscio sembrerebbe semplicemente non trovare spazio alcuno. L’interrogativo posto da Trincia consiste perciò nel chiedere se sia possibile «che il contenuto inconscio diventi conscio, senza tuttavia che la scelta del punto di vista fenomenologico ci obblighi ad accettare con Husserl che coscienza è necessariamente esser-conscio in ciascuna delle sue fasi» (F.S. Trincia, cit., p. 75): sembra all’Autore che ciò sia possibile in quanto l’inconscio sia reso il fenomeno di una fenomenologia della coscienza. Per inciso, questo è per l’appunto il senso della critica che, nell’Appendice XXI della Crisi delle scienze europee, Fink (e tramite lui Husserl) muove alla nozione di inconscio freudiano, la cui ingenuità – consistente nel presupporre costantemente una teoria della coscienza mai offerta da Freud e dai sostenitori della psicoanalisi – richiede una integrazione fenomenologica, ovvero l’esplicitazione del presupposto della coscienza e una preliminare analisi di quest’ultima, per poi eventualmente procedere ad una «fenomenologia dell’inconscio» (Cfr. E. Husserl, op. cit., p. 498).Trincia sottolinea l’affermazione di Husserl secondo cui «anche il dato originario è già conscio – nella peculiare forma dell’ora – senza essere oggettuale»: proprio lo spazio aperto tra l’originarietà e l’inoggettualità ritenzionali costituirebbe il “luogo” dell’inconscio, un luogo evidentemente interno alla coscienza (la ritenzione non sussiste senza coscienza e peraltro il dato, scrive Husserl, è già conscio senza essere oggettuale!), così interno da far sì che, come scrivono Costa-Franzini-Spinicci nella loro introduzione alla fenomenologia, «ha senso parlare di inconscio solo in quanto questo ha strutturalmente a che fare con la coscienza» (V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, p. 234,Einaudi, Torino, 2002).
Questa prima modalità, temporale, di costituzione fenomenologica dell’inconscio si fonda dunque sul principio dello Zwischen aperto tra io trascendentale e io psicologico, e al tempo stesso fornisce a tale principio una prima, concreta innervatura: quella dell’articolazione temporale della coscienza, che – si potrebbe ulteriormente riflettere – fa il paio con la distinzione-implicazione di tempo fenomenologico e tempo obiettivo, come due lati di una costituzione che è comunque trascendentale (il ché conferma a posteriori l’eccedenza del trascendentale esplicitata da Trincia in partenza). A questa innervatura manca ancora, per essere completa, la materia che la temporalità strutturalmente organizza: la seconda modalità di costituzione dell’inconscio, in quanto declina quest’ultimo nel senso dell’intenzionalità passiva introdotta da Husserl nelle Lezioni sulla sintesi passiva, permette appunto l’incontro con il dato iletico e completa così la “saturazione” del principio dello Zwischen tra i due io. L’attenzione va rivolta al tema dell’impulso (Trieb) e della sua articolazione. Particolarmente significativo ci sembra il fatto che anche una importante studiosa di fenomenologia e dei suoi rapporti con la psicoanalisi come Angela Ales Bello veda proprio nel tema della intenzionalità del Trieb un canale d’attuazione dell’inconscio:

«Il tema dell’intenzionale compare anche in Freud: nella Teoria dell’inconscio si trova questo tema, ovvero la presenza di motivazioni che sono sempre legate ad una forma di intenzionalità, anzi, dall’altro lato Husserl stesso parla di un’intenzionalità profonda degli impulsi. In alcuni suoi manoscritti Husserl parla di una Trieb-intentionalität, per evidenziare come l’impulso non sia così caotico come noi pensiamo, ma intenzionale» (Cfr. F. Buongiorno, Filosofia e psicoanalisi: colloquio con Angela Ales Bello, p. 5, pubblicato nel luglio 2008 su www.filosofiaitaliana.it); più oltre leggiamo ancora: «si tratta di un coglimento certamente consapevole, ma di una realtà altra […] Questo altro potrebbe anche essere la sfera impulsiva, inconscia, ma allora il problema consiste nel chiedersi se questa materia sia caotica oppure se sia già organizzata. Secondo l’interpretazione husserliana tale materia è già intenzionale, quindi non dico che sia organizzata, ma ha un senso, tanto è vero che Husserl lega l’intenzionalità dell’impulso alla teleologia, ovvero al tema di fondo della Crisi» (Ibidem).

            Il punto centrale è l’interpretazione del ruolo svolto dall’affezione al livello delle sintesi associative passive: se l’io si attiva in risposta al colpo dell’affettività, e se si riconosce, seguendo Husserl, il darsi di una gradualità dell’affezione, sembra offrirsi all’indagine un ponte importante verso la nozione di inconscio. Quest’ultimo corrisponderebbe infatti al grado zero della vivacità di coscienza, che non è certamente un nulla di coscienza ma, appunto, uno zero di affettività. Ne risulta che, colto da questo punto di vista, l’inconscio avrebbe a che fare non tanto con un (impossibile) affievolirsi della coscienza, bensì con l’indebolirsi del senso oggettuale: viene così fornito anche un collegamento essenziale con la sfera dell’inconscio nel suo strutturarsi temporale, in quanto si ipotizza che tale gradualità dell’affezione, nel suo essere passiva, sia funzionale all’attività del soggetto come riattivazione dell’evidenza, e tale riattivazione assume la forma del ridestare ovvero del rimemorare, che (nelle Lezioni sulla sintesi passiva quanto nelle riflessioni sul tema del tempo) sono presentate come modalità della coscienza temporale. Aggiungiamo la notazione non del tutto irrilevante per cui, nelle lezioni sul tempo del 1904-05, proprio la rimemorazione permette la costituzione dell’identità dei così detti posti temporali e quindi quella sovrapposizione tra campo temporale originario (ritenzionale-impressionale) e campo presentificato (in via rimemorativa) che consente di spiegare la costituzione del tempo obiettivo; il ché suona come una ennesima conferma della necessaria implicazione di io trascendentale e io empirico. E’ così che Trincia salda nella nozione dell’inconscio la struttura ontologico-materiale (associativa, propria dell’articolarsi delle affezioni) e quella temporale di coscienza: è questa la base su cui viene affrontato, nel capitolo quarto, il rapporto con la nozione propriamente freudiana di inconscio – che, come risulta dall’analisi sin qui condotta, non potrà più essere intesa nel senso delimitato dal “propriamente” ma viene sottoposta a una certa deformazione del suo senso originario. L’esclusione, infatti,  della temporalità dall’Es, che più volte Freud afferma nei suoi scritti, sembrerebbe precludere la possibilità di un accostamento con una nozione di inconscio fenomenologico, che abbiamo visto strutturarsi in primo luogo temporalmente: in realtà, Trincia evidenzia che quella stessa esclusione, intesa come assenza del tempo dall’Es, presuppone il tempo come forma ed essendo questa necessariamente la forma di una coscienza, ne risulterebbe addirittura confermata la possibilità di pensare l’unità dell’esperienza come tanto conscia quanto inconscia – conscia, in quanto struttura del riferimento della coscienza all’ambito dell’originario, del pre-riflessivo e pre-tematico (nel senso temporale descritto nel capitolo secondo); inconscia, in quanto, appunto, riferimento ad un pre-riflessivo e pre-tematico. In questo modo risulta anche garantito il carattere di vissuto dell’inconscio fenomenologico, che resta vissuto proprio in quanto pre-tematico, restando nel contempo trascendentale e quindi, in qualche modo, saputo; un’altra declinazione della co-appartenenza originaria di io trascendentale e io empirico.
            Nei capitoli quinto e sesto Trincia tira le somme dell’argomentazione svolta, il cui significativo risultato è stato di comprendere che «l’inconscio dovrebbe essere definito come il non essere coscienziale dei suoi contenuti, che tuttavia sono, sono nella forma della negatività dell’inconscio» (F.S. Trincia, cit., p. 264). Ci ritroviamo così al termine di una riflessione operata attraverso lo sforzo non tanto di fenomenologizzare l’inconscio (un compito impossibile nell’ambito di un pensiero che voglia restare fedele a Husserl pur nella libertà di una rigorosa re-intepretazione), quanto piuttosto di tentarne un’analisi fenomenologica non riduttiva, che conserva il carattere aperto di una proposta – rivolta a chiunque ritenga importante il confronto con la teoria psicoanalitica – per continuare a riflettere, nella convinzione, forse, che l’unico modo effettivo attraverso cui la filosofia può in qualche modo render conto dell’inconscio consiste nel parlarne, nel farlo rientrare all’interno della discorsività filosofica, del cui esercizio Trincia ci ha qui dato un prezioso saggio. La conclusione, che è insieme un nuovo punto di partenza, consiste quindi nel riconoscere l’insuperabilità del paradosso della soggettività: come ha molto ben sottolineato anche Angela Ales Bello, infatti, «il paradosso significa che c’è una problematicità, che ha però in sé una verità: per questo la tensione paradossale non va eliminata, ma va tenuta ben salda e riconosciuta come costitutiva» (Cfr. F. Buongiorno, Filosofia e psicoanalisi, cit., p. 7). Ma se il paradosso è costitutivo, se è esso stesso – come sostenuto all’inizio da Trincia – trascendentale, allora forse il soggetto non è più soltanto paradossale: forse possiamo avviarci a considerarlo soggetto in quanto paradossale.

PUBBLICATO IL : 12-05-2009
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