| Prima pagina:  Forti, o voi pochi, in rio servaggio avvolti, 
    fia sola ammenda al nascer vostro amaro, 
                                                                                                                                       l’essere in suol di libertà sepolti. 
  (Vittorio Alfieri, Rime, Parte Prima, CLI) 
  
                     La  filologia, cioè la consuetudine, la custodia e la cura del linguaggio, fu la  disciplina propria di Leopardi, e non è imprudente dire che solo su questo  terreno poté germogliare la mèsse del suo pensiero e della sua poesia. Ma per  vedere il reciproco rimandare di questi campi del sapere e dell’agire, e  l’essenziale unità che li tiene legati nell’opera di Leopardi, è necessario  coltivare uno sguardo che non li costringa troppo severamente nel ruolo di settori  scientifici, separati tra loro dal rigore di un metodo che si mantiene  affidabile solo in quanto è in grado di conformarsi alle diverse materie che ad  esso vengono di volta in volta affidate. Il rigore di cui Leopardi diede prova  nei suoi lavori di filologia non può servire da obiezione, ma ci mostra  piuttosto come l’unità del sapere sia un terreno affidabile per lo sviluppo del  metodo. L’intreccio armonioso della filologia, del pensiero e della poesia  lascia credere che per Leopardi l’unico metodo fu la vita, e insieme,  infallibilmente, la morte.  
  In questo senso potremmo forse vedere in lui un sapiente, secondo il termine che un’  antica tradizione impiega per indicare colui che mette la sua meditazione a  servizio del fine essenziale dell’uomo. Se davvero è così, allora il confronto  di Leopardi con lo stoicismo non potrà essere guidato da un interesse  semplicemente storiografico, ma piuttosto dalla domanda che in ogni tempo  chiama in causa il sapiente: chi è  l’uomo? Se il tema di questo articolo riuscirà in qualche modo ad  avvicinarci a questa domanda, potremo ritenere di non aver impiegato  inutilmente il nostro tempo.  
                       Ma  da quale punto di vista sarà più proprio considerare l’interesse di Leopardi  per lo stoicismo? La filologia avanza le sue pretese, dato che il documento  principale di questo interesse è costituito dalla volgarizzazione del manuale  di Epitteto, che Leopardi, in veste di filologo,  progettò di pubblicare  attorno al 1825 presso l’editore Stella. L’ampio preambolo che Leopardi compose  perché precedesse la volgarizzazione, invita d’altra parte la storiografia  filosofica a considerare il confronto di Leopardi con il pensiero degli stoici.  I due aspetti possono essere separati e studiati singolarmente dagli  specialisti di queste discipline, e magari essere poi ricomposti attraverso un  approccio interdisciplinare che faccia da correttore all’eccesso di  specializzazione. 
                       Il  punto di vista di questo articolo tuttavia è diverso, in quanto comincia col  domandare: per quale ragione Leopardi si trovò a dialogare con il pensiero  degli stoici? Con questa domanda sarà forse possibile illuminare il significato  di questo dialogo all’interno dell’opera di Leopardi. Ma per cercare le ragioni  del confronto di Leopardi con Epitteto è necessario innanzitutto evocare la  comprensione della storia entro la quale esso si ambienta; l’interpretazione  dello stoicismo avanzata da Leopardi può infatti essere pienamente compresa  solo alla luce dell’idea di una determinazione storica dell’essenza dell’uomo,  che può essere vista come il centro attorno al quale gravitano le orbite  apparentemente irregolari del pensiero di Leopardi.  |