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Una lettera di Bruno Nardi a Giovanni Gentile
di Stefania Pietroforte

Sommario: Il 19 ottobre 1938 Bruno Nardi scriveva a Giovanni Gentile la lettera qui riportata e commentata. L’occasione che spingeva Nardi a scrivere a Gentile era la partecipazione a un concorso universitario rispetto al quale Gentile gli aveva comunicato notizie poco confortanti, cioè che alcuni si opponevano alla sua candidatura sostenendo che non avesse i requisiti per una cattedra di filosofia. I punti focali della replica di Nardi sono essenzialmente due: l’affermazione di non essere un dantista e la rivendicazione della modernità del proprio studio. Il contributo ricostruisce nella loro genesi teorica questi due motivi, illuminando, a partire da essi, alcuni aspetti salienti del Nardi filosofo.
Prima pagina:

Il 19 ottobre 1938 Bruno Nardi scriveva a Giovanni Gentile la seguente lettera:

Eccellenza,
perdonatemi se dopo il colloquio d’ ieri m’induco a scriverVi un po’ a lungo. Lo faccio, non perché non sappia che avete buona memoria, ma perché una lettera, per quanto lunga, è sempre più breve di una visita.
            Ho ripensato a lungo su quanto mi avete detto; e per quanto abbiate cercato di rassicurarmi sul conto che fate di me, facendomi conoscere quello che pensa delle cose mie anche l’ottimo amico e maestro Barbi (che mi duole di non conoscere ancora di persona!), me ne sono tornato un po’ abbacchiato. Ho sempre lavorato con serietà di propositi, con preciso metodo critico, non per scopi reclamistici, ma perché mi sono imbattuto in problemi che mi pareva valesse la pena d’affrontare. Se ho ben capito, gli appunti che mi si muovono son questi: che mi sono smarrito intorno a questioni aneddotiche, ed ho perso di vista i problemi di maggiore importanza.
            Il vero è che oggi tra noi molti si occupano dei “massimi problemi”, e costruiscono sintesi su sintesi che hanno la durata della moda femminile; mentre quelli che son capaci delle minute, pazienti e faticose ricerche particolari si fanno sempre più rari.
            Voi m’avete accennato alla quistione del “luogo natìo” di Virgilio. Il problema non l’ho sollevato io; l’avevano sollevato il Mommsen e il Conway ed era agitato in Italia e fuori. Molto s’era scritto intorno ad esso; e il problema puramente filologico era sboccato perfino in una interpretazione pseudo-estetica delle Bucoliche. Io ho sostenuto che il problema era sorto da mancanza di senso critico nella scelta di alcune varianti nei testi dei grammatici e da ignoranza della tradizione che era stata manomessa in tutti i modi. Ho rivendicato la serietà del metodo d’indagine filologica, e i risultati a cui son giunto, son modesti ma sicuri. Virgilianisti come il Castiglioni, il Ristagni, il Fumaioli e perfino il Pasquali, che poco fa aveva fatto riserve, mi hanno dato prove del loro consenso. Del resto, il luogo natale di Virgilio ha almeno tanta importanza quanta potrebbe averne quello d’Augusto, il quale è vivo oggi soprattutto nel carme virgiliano. E dal modesto villaggio sul Mincio son partito per capire la parte enorme fatta all’Etruria nel poema virgiliano, sino a fare d’Enea un discendente di stirpe etrusca, che ritorna fra le braccia dell’antica madre (Mantua Tuscorum transpadum sola reliquia). E’ probabile che in tutto ciò i miei critici non trovino niente di filosofico. Ma forse per essi la filosofia s’occupa solo dei “massimi problemi”, che poi non riesce a risolvere, perché ha ignorato i minimi.
            Che dire poi delle mie ricerche dantesche? Cominciai a occuparmi del pensiero filosofico di Dante, perché non riuscivo a capire quello che leggevo nei commenti. Colla piena complicità degli storici della filosofia (unica eccezione fatta per Voi), i nostri dantisti avevano creato la leggenda di un Dante tomista, che è la cosa più balorda che si sia mai pensato. Questa leggenda in venticinque anni di ricerche pazienti son riuscito ormai a demolire pezzo per pezzo. Quando avrò finito di buttar giù le note critiche all’ultima indecente edizione del Convivio, essa sarà completamente distrutta. Già avete visto come mi giudica il Pietrobuono e sapete come la pensi il Barbi che al tomismo di Dante aveva creduto ad occhi chiusi. Io non sono un dantista. E in tutti i miei lavori danteschi, da quelli su Sigieri a quello sull’Empireo, la ricerca filosofica s’è estesa a tutta la storia del pensiero antico e medievale. E’ così che m’è stato possibile riconoscere nella dottrina delle macchie lunari una precisa teoria di Giambico, in quella dell’Empireo una precisa dottrina di Proco ed anzi antichissima. E Dante nella sua grande anima di credente e di cristiano mi s’è rivelato libero e immune da ogni fariseismo gesuitico. Anche queste son questioni aneddotiche?
            All’infuori poi di Dante, i miei studi di filosofia medievale ritengo che apportino qualche notevole contributo alla conoscenza di questo periodo del pensiero umano. E Voi sapete che se mi sono occupato di filosofia medievale, come altri si sono occupati d’Aristotele o d’Epicuro, le mie ricerche si son rifatte sempre alla filosofia antica, e il metodo è stato filologicamente e filosoficamente moderno.
            Certo io non conosco ugualmente bene tutta la storia della filosofia. Ma chi è che possa vantarsi di conoscerla tutta? Chi? Provi a fare un nome, non dico fra quelli che concorrono insieme a me, ma fra gli stessi giudici del concorso!
            Io nutro fiducia che mi si giudichi a ragion veduta, senza pregiudizi di generi letterari (intendo per generi il plurale di genere e non di genero, poiché sentii una volta l’amico Schiaffini deplorare questa piaga). Ho lavorato seriamente, senza adulare mai nessuno e senza pensare ad una cattedra universitaria. Se vi penso oggi è perché desidero avere più tempo per terminare i troppi lavori che ho a mano e perché credo di meritarla.
            Vogliate perdonarmi questo sfogo, e se credete che non abbia proprio torto, Vi prego di aiutarmi a far valere le mie difese. Con riconoscente affetto

                                                                     Vostro B. Nardi

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PUBBLICATO IL : 09-11-2010
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